da Paolo Talone | Feb 28, 2023
(Teatro Quirino – Roma, 21 febbraio/5 marzo 2023)
In un albergo di una località di villeggiatura sul mare un gruppo di attori prova una scena del prossimo spettacolo. Nel frattempo l’impresario della compagnia, don Alberto De Stefano, piomba improvvisamente in casa dell’amata Bice per chiederla in sposa. Scopre suo malgrado che la donna è sposata e per salvarle l’onore inscena la pazzia. Da qui una carambola di equivoci e situazioni assurde che porteranno uomini e galantuomini a trovarle tutte per salvare la faccia. (ph. Tommaso Le Pera)
Un’energica ondata di comicità e divertimento ha travolto il pubblico del Teatro Quirino per la prima romana di Uomo e galantuomo di Eduardo De Filippo, prodotto da Gitiesse Artisti Riuniti in collaborazione con il Teatro nazionale della Toscana. Nel segno del grande rispetto della tradizione, Armando Pugliese – regista che ha lavorato insieme tra gli altri a Luca De Filippo e Raffaele Viviani – mette in scena un lavoro da non perdere per chi desidera rivedere questo classico della letteratura teatrale dello scorso secolo.
Protagonista indiscusso è Geppy Gleijeses nel ruolo di Gennaro De Sia, capocomico della compagnia di guitti girovaghi impegnati a portare il teatro nella località balneare di provincia di Bagnoli. Ineccepibile e travolgente la sua vis comica sostenuta da un gruppo di attori ben preparato, tra cui un particolare encomio va a Gino Curcione nel ruolo di Attilio, spalla perfetta nella scena delle prove dello spettacolo dove si ride fino alle lacrime per la sua performance da suggeritore imbranato. Ma complice è anche un pubblico che si lascia ancora sorprendere da un testo che di anni ne ha compiuti ben cento. Appare infatti nella raccolta Cantata dei giorni pari pubblicata dallo stesso autore, che mette insieme le commedie scritte prima della guerra (la Cantata dei giorni dispari raccoglie invece in tre volumi, secondo l’edizione Einaudi, i lavori tra il 1945 e il 1973). Eduardo De Filippo aveva appena ventidue anni quando la compose nel 1922. Nonostante l’età questo testo non mostra un filo di ruggine tanto è ben oliato il suo meccanismo comico. Continua quindi a dare frutti come un albero ancora robusto. L’edizione in scena al Quirino ne è la prova.
Nella scena di Andrea Taddei l’estate è evocata nel pergolato che fa da impalcatura ai tre luoghi della commedia: l’albergo, il salotto di casa Tolentano e il commissariato. Basta cambiare pochi elementi per suggerire dove ci troviamo. Ma è il testo a risultare sorprendentemente vivo perché reinventato, sottoposto a una nuova metamorfosi – che immaginiamo sia avvenuta in sede di prova – arricchito di lazzi e battute, improvvisati in alcuni punti, ma non compromesso o snaturato. Alla base si percepisce un grande rispetto per la tradizione, sulla quale lo stesso Eduardo poggiò i piedi senza mai perdere di vista però la contemporaneità, la novità. Ed ecco che la finta pazzia di Alberto, il galantuomo interpretato da Lorenzo Gleijeses, diventa la leva con cui scardinare le regole di una società ancora legata all’onore. Meccanismo quello della pazzia che torna utile anche agli altri personaggi che vogliono togliersi dall’impaccio di prendersi la responsabilità delle proprie azioni: il conte Carlo Tolentano (Ernesto Mahieux) rispetto al tradimento della moglie e lo stesso Gennaro De Sia, che da artista squattrinato non ha i soldi per saldare il debito all’albergatore. Tradizione e innovazione che convivono anche nella coppia Geppy e Lorenzo Gleijeses, padre e figlio. Il primo testimone di una grande tradizione dalla quale ha ricevuto lezioni preziose per arrivare a essere il magazzino di esperienza che si vede sulla scena. Il secondo nel quale è ben visibile la lezione di un grande innovatore e teorico del teatro come Eugenio Barba. Non si può non apprezzare nella sua recitazione una padronanza e una sicurezza nella gestualità e nell’uso dell’intera fisicità come strumento di comunicazione. Il copione di Uomo e galantuomo sembra non essere ancora terminato. Eduardo è vivo come è vivo il suo teatro.
data di pubblicazione:28/02/2023
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Feb 12, 2023
(Centrale Preneste Teatro – Roma, 4 febbraio 2023)
Unica data per il nuovo lavoro della coppia Piscopo/Carrozzi. In scena al Centrale Preneste Teatro per la rassegna “La city è donna” il monologo che vede protagonista Anna Piscopo nei panni di Calimba, una donna che vive sepolta in casa da anni in cerca di riscatto.
Cianfrusaglie ovunque, vestiti, carte, una valigia. Un cellulare e una lampada ring light per registrare video da postare sui social, tutto rigorosamente rosa. Il personaggio di Calimba, una donna del sud che si è trasferita nella capitale, appare in scena cercando di farsi spazio tra la miriade indefinita di oggetti che riversano a terra nel suo appartamento. Si respira un’aria di trasandatezza e sciatteria anche nei vestiti che indossa: un paio di scarponcini rosa dal tacco grosso, leggings e reggiseno. Si sta preparando per incontrare Papi, il boss di un Cartello conosciuto in chat con il quale sembra dover passare la serata e forse il resto della vita. Dopotutto sono dieci anni che non esce di casa. Sogna un riscatto, un’occasione che la porti via dal condominio ostile in cui vive. La sua condizione disturba chi le vive intorno e a minacciare la sua apparente sicurezza arriva anche una notifica dalla Asl di sfratto esecutivo.
Prodotto da BAM teatro e Nutrimenti Terrestri, il terzo lavoro portato in scena dalla coppia Piscopo/Carrozzi, dopo “Vai a rubare a san Nicola” e “Mangia” (2020), riflette sulla disperata condizione di chi è affetto da disturbo da accumulo e di chi, inacidito da una società che tende a isolare chi ha problemi, vive ai margini. L’odio per le persone viene compensato dall’estremo attaccamento agli oggetti, che diventano i suoi affetti più cari. Primo fra tutti una parrucca di ricci rosa nella quale vede un cagnolino che si trascina dietro al guinzaglio. La vita non è stata gentile nei suoi confronti, tanto da portarla a pensare che sia lei stessa un oggetto tra gli oggetti. Una patata cruda che rimane sullo stomaco di chi la mangia.
L’unica arma di difesa dal mondo esterno è il sarcasmo e un modo di fare ironicamente aggressivo che allontanano chiunque venga a contatto con lei. Gli sketch che mette su con energia e indiscussa bravura Anna Piscopo sono esilaranti, anche se ricalcano una comicità già collaudata (non si può non pensare a Franca Valeri e simili quando Calimba affronta al telefono un operatore della Asl o chi le propone di partecipare a un programma televisivo per vagabondi e senzatetto, con la sua parlata mista tra dialetto pugliese e inflessione romanesca). Non si limita a vivere il disordine dentro casa, ma vuole mettere in subbuglio anche il mondo fuori di lei. Lo spazio dato alla comicità però diventa dominante, a discapito di una ricerca più approfondita che poteva interessare il personaggio. Di Calimba ci è ben chiara la condizione che vive, ma oltre questo non conosciamo molto delle ragioni che la guidano. Il testo racconta delle burrasche del passato, ma questo da solo non basta a dare struttura al personaggio. Tuttavia, anche il modo di affrontare la vita con sarcasmo e sfrontatezza è un modo per esprimere il proprio desiderio di Vivere!
data di pubblicazione:12/02/2023
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Feb 4, 2023
(Altrove Teatro Studio – Roma, 3/5 febbraio 2023)
L’ironico personaggio di U è preda di domande e contraddizioni, scatenate da un mondo effimero nel quale siamo tutti immersi. In scena all’Altrove Teatro Studio (lo spazio artistico gestito da Ottavia Bianchi e Giorgio Latini) il testo vincitore del Primo premio di drammaturgia “Prosit!”, ideato per dare spazio a nuovi autori di prosa, che sappiano rappresentare la contemporaneità.
Il mondo che circonda U è effimero e inconsistente come la catasta di palloncini colorati ammonticchiati in un angolo della scena, belli da vedere ma in realtà pieni di nulla. Non a caso usiamo una metafora per fornire una prima immagine di questo spettacolo. Il testo ideato e scritto da Alessia Cristofanilli fa utilizzo del linguaggio figurato per trasportare immediatamente lo spettatore al cuore di una questione in cui ognuno di noi è coinvolto. Cosa spinge una persona a compiere anche il gesto più banale come quello di aprire la porta per uscire di casa? Ovvero cosa si cela dietro ogni decisione che prendiamo? Una volontà certa, libera oppure una costrizione che ci viene imposta dall’esterno, una trappola che qualcuno ci ha teso? Il mondo in cui viviamo è uno spaccio di certezze, basato sulla teoria che a un determinato stimolo corrisponda inesorabilmente un solo tipo di risposta. Ma non è così per il personaggio di U che, affetta da quello che lei chiama disturbo filosofico, si ferma a pensare e a farsi domande. Non si lascia cullare dalle consolanti risposte che la vuota proposta di una società consumista le propone. La pena che deve pagare però è l’inazione, la paralisi davanti alla possibilità di avere l’illusione di poter scegliere tra mille opportunità. Tutto questo la fa sentire come un cespo di lattuga finito per sbaglio nello scaffale dei cereali.
Obbligo o libertà di scelta? In questo contrasto risiede l’azione del dramma, che si riflette in ogni singolo elemento di cui si compone la messa in scena. Dalla scelta dell’attrice, Giulia Mombelli, ora seria ora lucidamente ironica, che sa esprimere comicità anche solo con i gesti dando il giusto spazio alle parole quanto ai silenzi. Contrasto nella scelta del costume, che oppone una blusa e un pantalone anonimi a un cappotto e a una sciarpa dai colori accesi. Fino a una danza emotiva e frenetica di luci, che ora si stringono a illuminare un particolare per poi allargarsi a mettere tutto in evidenza, come la merce in vendita nei centri commerciali. È uno spettacolo che funziona nella sua totalità, felice esempio di quanto possa essere proficuo un sapiente e calibrato lavoro di squadra.
data di pubblicazione:04/02/2023
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Gen 29, 2023
(Teatro Cometa Off – Roma, 24/29 gennaio 2023)
Torna al Cometa Off di Testaccio L’amico ritrovato, adattamento teatrale del romanzo breve di Fred Uhlman, per la regia di Alessandro Sena. Il racconto dell’amicizia tra Hans e Konradin per non dimenticare gli orrori dell’Olocausto, nei giorni dedicati alla Memoria.
Un muro di filo spinato – un’inutile barriera che il tempo, le scelte e la speranza possono abbattere – separa la scena dividendola in due esatte metà. Da un lato una poltrona rossa, sulla quale scende a illuminarla un lampadario a gocce. Dall’altro un interno borghese, con sedie imbottite e tavolinetti da caffè. Siamo in due epoche diverse, lontane nel tempo e nello spazio. Il realismo della scena è amplificato nella ricercatezza dei costumi di scena. L’interno con la poltrona rossa ci riporta alla Germania degli anni Trenta, nella lussuosa casa dell’aristocratica famiglia filonazista dei genitori di Konradin von Hohenfels; mentre l’altro è il salotto anni Settanta nell’appartamento di Hans Schwarz, costretto a emigrare in America anni prima perché ebreo. Erano studenti nello stesso liceo di Stoccarda quando i due ragazzi si incontrarono la prima volta nel 1932, diventando subito amici. Allora la città sveva era lontana dai fenomeni di intolleranza religiosa e razziale che interessavano Berlino. Ma presto il vento della guerra, con tutto il carico di odio nei confronti degli ebrei, li avrebbe presto investiti distruggendo la loro amicizia. L’azione si svolge in contemporanea davanti ai nostri occhi, come a ricordarci che ovunque nel tempo un fatto si sia svolto è il presente che ha il dovere di ricordarlo.
In occasione della celebrazione del Giorno della Memoria, il teatro Cometa Off ripropone, dopo il successo ottenuto lo scorso anno, L’amico ritrovato diretto da Alessandro Sena. Lo spettacolo, a cura dell’Associazione culturale I giardini di Antares, è stato tradotto e adattato in maniera efficace e originale dal regista in collaborazione con Marco Tassotti. La drammaturgia è solida e sa entrare in dialogo coerente con altre storie, come quella commovente di Dora Gerson, attrice e cantante tedesca assassinata ad Auschwitz con tutta la famiglia. Ma anche storie che mutuano dalla tradizione operistica il loro esempio: come infatti Tosca venne tradita sul finale da Puccini, così Hans viene tradito nell’amicizia da Konradin.
Il cast, in parte cambiato rispetto alla scorsa edizione, vede in scena un gruppo di attori impegnato a trasmettere con seria professionalità il concetto di memoria alla base del dramma. Hans e Konradin sono interpretati rispettivamente da Marco Fiorini e Alessio Chiodini. Accanto a loro due attrici di incontestabile bravura e preparazione, nonostante la debolezza – rispetto ai protagonisti maschili – dei loro personaggi. Alessandra Cosimato è Page, nome simbolico perché interessata a pubblicare la testimonianza di Hans per la sua casa editrice, il quale mostra inizialmente reticenza più per il dolore a ricordare che per il fastidio dell’intervista. L’altra figura femminile è la madre di Konradin, interpretata da Vittoria Rossi, la voce che incarna tutto l’odio e il pregiudizio razziale nei confronti degli ebrei. Le sue parole possono apparire scontate e banali visto il modo con cui esprime il suo odio, ma è anche questo il lavoro che spetta alla memoria. Ripetere quello che diamo per scontato, perché questo tratto di storia non venga dimenticato. Ricordare per non dimenticare, per dirla con le parole che Alessandro Sena affida a Hans.
Lo spettacolo è stato apprezzato e applaudito la sera della prima anche dalla Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello. “È facile rompere un’amicizia se non si ha la capacità di scegliere da che parte stare”, afferma la Presidente, grata per questa occasione offerta dal teatro per fare memoria e per riflettere su emozioni e sentimenti che non sono affatto semplici.
data di pubblicazione:29/01/2023
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Gen 22, 2023
(Teatro Quirino – Roma, 17/29 gennaio 2023)
Leonard Vole viene accusato dell’omicidio di Emily French, una ricca donna che era disposta a lasciargli la sua eredità. Sul banco dei testimoni compare a deporre contro di lui la moglie, Romaine Heilger. Sarà l’avvocato Sir Wilfrid Robarts a difenderlo, ma il caso è molto più complesso di quello che appare. In scena al Teatro Quirino di Roma il perfetto dramma giudiziario della ‘maestra del giallo’ Agatha Christie.
Non capita spesso nel panorama dei teatri italiani di veder rappresentati testi che altrimenti rimarrebbero a prendere polvere sugli scaffali delle nostre librerie. È un bene allora che ci siano registi come Geppy Gleijeses che hanno il coraggio di portare in scena grandi autori poco frequentati, come accadde l’anno scorso con Processo a Gesù di Diego Fabbri e quest’anno con Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1953) di Agatha Christie. L’indiscussa “regina del giallo” ha avuto più fortuna per i romanzi che per i suoi lavori teatrali, tra cui però compaiono capolavori come quello in scena al Quirino in questi giorni e il ben più famoso Trappola per topi (The Mousetrap, 1952), entrambi adattati da due racconti. Ma il coraggio risiede anche nel proporre al pubblico uno spettacolo della durata di due ore senza intervallo – un tempo che non siamo quasi più abituati a concedere a un prodotto culturale – a cui è necessario prestare molta attenzione per apprezzarne il perfetto meccanismo dell’indagine e il realismo di un linguaggio accurato nella terminologia legale. Si apprezza in particolare la volontà del regista Geppy Gleijeses di rispettare il testo nella sua totalità, senza tagli o ammodernamenti – se si fa eccezione per l’aggiunta di alcune battute sul finale che riscattano la figura femminile di Romaine – per una messa in scena efficace e fedele. Prodotto dalla Gitiesse Artisti Riuniti in collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto, Testimone d’accusa non può essere portato in scena senza tener conto dei dettagli sui costumi sociali in cui è ambientata l’opera. Il dramma è fortemente contestualizzato e Geppy Gleijeses, per nostra fortuna, lo rispetta.
Al centro dell’indagine c’è la figura di Leonard Vole che viene accusato di omicidio. È un personaggio in apparenza buono, semplicione, che cattura la nostra simpatia soprattutto per l’interpretazione di Giulio Grosso, che ne sottolinea con bravura eccezionale l’ingenuità. Una coppia di avvocati prende le sue difese. L’avvocato Mayhew (Antonio Tallura) e Sir Wilfrid Robarts, ruolo affidato a Geppy Gleijeses in sostituzione di Giorgio Ferrara, assente per una lieve indisposizione. Non compare quindi nessun Poirot o Miss Marple a investigare sui fatti, ma Sir Wilfrid ne è uno stretto parente. Non manca la pipa a caratterizzare il personaggio. Animato dal dubbio e da una sottile intelligenza, conduce la sua inchiesta prendendo a bersaglio la moglie di Leonard, la tedesca Romaine Heilger interpretata da Vanessa Gravina. Quest’ultimo personaggio è senza dubbio il più complesso di tutta la pièce e insieme quello più teatrale, per profondità psicologica e capacità di trasformazione. Vanessa Gravina dimostra di aver compreso a pieno le ragioni e il mistero che si celano dietro la sua Romaine. È un personaggio quasi pirandelliano per la forza che ha nel saper mascherare la verità che porta dentro, nonostante i pregiudizi della corte. È una donna, “Ma chi vuoi che creda a una moglie” dice Sir Wilfrid, e per di più straniera di un paese che era stato in guerra con l’Inghilterra fino a pochi anni prima. Il suo temperamento algido, privo di emozioni, in realtà nasconde una nobile motivazione che sarà il pubblico – presente in sala, ma anche scelto in piccolo numero ogni sera per essere presente sulla scena – a giudicare le sue azioni e a darle o meno l’assoluzione.
data di pubblicazione:22/01/2023
Il nostro voto: 
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