SE LA STRADA POTESSE PARLARE di Barry Jenkins, 2019

SE LA STRADA POTESSE PARLARE di Barry Jenkins, 2019

Una romantica storia d’amore che diviene struggente perché conosce la tristezza della separazione, ma che invece di spegnersi si autoalimenta. E così l’amore diviene strumento per difendersi dalle ingiustizie e dal dolore, quell’amore che rende forti se viene instillato sin da bambini, come cura per affrontare le brutture del mondo.

 

Siamo nel quartiere di Harlem a Manhattan negli anni ’70. Tish ha appena diciannove anni ed ama profondamente Alonzo, detto Fonny, che ne ha ventidue: i due sono cresciuti insieme, inseparabili sin dalla tenera età e, seppur giovanissimi, il loro è un legame profondo. I genitori di lei ne sono perfettamente consapevoli, forse perché anche loro si amano ancora molto, mentre quelli di Fonny, perennemente in lite, non vedono di buon occhio la ragazza. Queste diverse vedute non impediscono alla coppia di progettare un futuro insieme e l’improvvisa gravidanza di Tish consolida quel legame già così stretto. Ma i loro romantici progetti di una felice vita in comune s’interrompono allorquando Fonny viene accusato di un reato che non ha commesso.

If Beale Street Could Talk di James Baldwin è il romanzo da cui Barry Jenkins ha tratto ispirazione per il suo Se la strada potesse parlare. Presentato con successo durante l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, la pellicola riesce a mescolare, fedele al racconto, romanticismo e tristezza, melanconia e dolcezza, rabbia e dolore. “Beale Street è una strada di New Orleans, dove sono nati mio padre, Louis Armstrong e il jazz. Ogni afroamericano nato negli Stati Uniti è nato a Beale Street, è nato nel quartiere nero di qualche città americana, sia esso a Jackson, in Mississippi, o a New York. Beale Street è la nostra eredità. Questo romanzo parla dell’impossibilità e della possibilità, della necessità assoluta, per dare espressione a questo lascito…”

Il tema principale del film è l’amore, coniugato attraverso l’indissolubile legame di coppia dei due giovani protagonisti e l’altrettanto indissolubile legame di loro con le famiglie di appartenenza, legame di cui fanno parte anche le amicizie del quartiere in cui Fonny e Tish sono nati e diventati grandi, attraverso un codice sacro non scritto tramandato in tutte le famiglie afroamericane. E così, quando il più naturale dei progetti naufraga in seguito ad un’ingiustizia, l’amore instillato sin da piccoli rende forti e pronti a sopportare anche la più dura delle prove.

Barry Jenkins, premio Oscar per il bellissimo Moonlight e di fresca nomination ai prossimi Oscar per la sceneggiatura non originale di questo film – a cui si aggiunono le nomination a Regina King come attrice non protagonista e alla colonna sonora – è riuscito a trasferire sullo schermo non solo il poetico romanticismo ma soprattutto la forza inscalfibile dell’amore di cui parla Baldwin, che nasce da un “contagio” che si eredita in famiglia e che riesce a coinvolgere emotivamente anche lo spettatore.

data di pubblicazione:24/01/2019


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BIG NIGHT di Stanley Tucci e Campbell Scott, 1996

BIG NIGHT di Stanley Tucci e Campbell Scott, 1996

Big Night è un film del 1996 co-diretto da Campbell Scott e Stanley Tucci, che ne ha curato anche la sceneggiatura assieme a Joseph Troiano, e narra delle vicende di due fratelli italiani di origini abruzzesi, Primo (Tony Shalhoub) e Secondo (Stanley Tucci) Pilaggi, emigrati come ristoratori sulla costa del New Jersey. I due hanno profonde diversità di vedute nella gestione del loro ristorante: Primo (il maggiore) è uno chef caparbiamente legato alla tradizione della cucina italiana e non vuole saperne di accettare compromessi, mentre Secondo cerca di accontentare i gusti della sparuta clientela che frequenta ancora il loro locale seppur con un’idea distorta di quella che è la tradizione culinaria italiana. Sull’orlo del fallimento per i loro disaccordi, i Pilaggi subiscono anche la concorrenza spietata di Pascal, un altro emigrato titolare di un ristorante italiano di grido sempre pieno, dove però la cucina tricolore viene reinventata secondo degli stereotipi, molto americani, che fanno inorridire Primo. Pascal, pur stimando Primo come chef, rifiuta a Secondo un prestito che potrebbe risollevare le loro sorti, ricorrendo anche ad un inganno per dare la spallata finale all’attività dei due fratelli: li convince ad organizzare una sontuosa cena alla quale invitare il famoso cantante italoamericano Luis Prime, costringendoli a dare fondo alle loro ultime risorse economiche per un banchetto degno del personaggio la cui presenza, da un punto di vista pubblicitario, avrebbe finalmente risollevato la loro attività di ristorazione.

Di Big Night, gustosa commedia amara a sfondo gastronomico ambientata negli anni Cinquanta, si apprezza come scena migliore proprio la cronaca della cena e della sua preparazione. Il piatto forte della cena, decisiva per il rilancio del ristorante dei fratelli Pilaggi, è rappresentato dal timballo di ziti di cui, nel film, ne vengono enfatizzate le difficoltà di esecuzione. Piatto unico della cucina centro-meridionale, il timballo si cuoce in uno stampo a forma di campana rovesciata e pare che il suo nome derivi proprio da questo tipo di recipiente di cottura che assomiglia ad un ”tamburo”: da qui “timballo”. Diverso negli ingredienti, il timballo è un piatto molto ricco ed in uso nelle feste e nelle grandi occasioni, tipico non solo della cucina abruzzese ma anche campana e siciliana, i cui ingredienti sono i più disparati: dalla pasta al riso, alla carne sia in forma di ragù che in polpettine, le uova sode, scamorza o mozzarella, salumi, affettati o anche verdure, il più delle volte fritte. Deve essere preparato per tempo e calma, aggiungendo via via gli ingredienti che spesso sono cotti separatamente e poi assemblati: una volta cotto, deve “riposare” per compattarsi bene.

Eccovi la ricetta di mia nonna Romilda, abruzzese doc, del suo timballo di ziti con polpettine, che ricorda moltissimo il timballo dei fratelli Pilaggi.

 

INGREDIENTI: ½ kg di ziti da spezzare a mano – 6 etti di macinato di vitella – 3 scamorze appassite non molto asciutte – 2 etti di parmigiano grattugiato – passata di pomodoro – 4 uova – olio extravergine d’oliva q.b. –– sale e pepe q.b.- pangrattato q.b. – noce moscata q.b. – 3 uova sode facoltative.

PROCEDIMENTO:

Usare metà del macinato di vitella per fare un sugo con pomodoro e basilico, non troppo ristretto. L’altra metà del macinato servirà per fare, con un po’ di pazienza, delle polpettine aggiungendo semplicemente sale, pepe e una grattatina di noce moscata e soffriggendole a fuoco lento in olio extravergine d’oliva, facendo prima riscaldare appena l’olio e buttandocele dentro.Spezzare le zite a mano in modo irregolare e lessarle con poco sale e molto molto al dente; in una grande ciotola sbattere le uova con un po’ di sale, versarci gli ziti appena scolati e mescolare (rigorosamente con le mani) sino a quando le uova si saranno amalgamate con gli ziti. Quindi, ungere bene una teglia tonda con i bordi molto alti (possibilmente di rame fuori ed alluminio nell’interno) con burro o olio, aiutandosi sempre con le mani, e facendoci poi aderire bene del pangrattato; a questo punto cominciare a fare gli strati ma non più di tre: sugo-parmigiano-pasta-polpettine-parmigiano-scamorza tagliata a dadini-pasta-sugo e così via. Terminati i tre starti di pasta completi di tutti gli ingredienti, ai quali si possono aggiungere facoltative delle uova sode a pezzetti, e facendo in modo di terminare con il sugo su cui mettere parmigiano e scamorza a dadini e polpettine, mettere in forno preriscaldato a 180° fissi per 30/40 minuti; passato il tempo, vedere se sopra il timballo si è creata la crosticina, in caso contrario accendere per 5 minuti il grill.

Tirare fuori dal forno il timballo e farlo riposare per almeno 20/30 minuti, coperto con un canovaccio di lino: l’attesa garantirà che si compatti bene permettendo così di tagliare le porzioni facendo prima un cerchio nella parte centrale, in caso si usi il tegame tondo come da tradizione. Si mangia tiepido, per gustarne tutti i profumi. Emozionante!

 

OLD MAN & THE GUN di David Lowery, 2018

OLD MAN & THE GUN di David Lowery, 2018

Robert Redford sceglie di interpretare, per il suo addio alle scene, il ruolo di un attempato rapinatore di banche. Il suo Forrest Tucker ci fa ripensare a tutti quei personaggi che abbiamo tanto amato e continueremo ad amare, ribelli e fuorilegge alla Butch Cassidy, imbroglioni ma ricchi di fascino come ne La stangata e intrisi di infinita classe come Il grande Gatsby.

 

 

Forrest Tucker, dopo aver messo a segno infiniti colpi in banca e ben 18 evasioni da ogni tipo di penitenziario, compresa quella clamorosa dal carcere di massima sicurezza di San Quintino, continua insieme ai suoi “vecchi compagni” di avventura a commettere rapine, spostandosi di contea in contea. Il suo è un vero e proprio talento naturale, manifestatosi sin dai tempi del riformatorio, che Forrest continua ad esercitare anche in età più che matura, con gioiosa sfacciataggine e una generosa dose di buone maniere. Un vero e proprio ladro gentiluomo che continua ad organizzare colpi leggendari, nonostante abbia alle calcagna il detective John Hunt (interpretato da un bravo Casey Affleck), rapito a tal punto dall’abilità di quest’uomo da essere felice di non poterlo catturare. Danny Glover e Tom Waits vestono i panni degli altri due componenti la “over the hill gang” e una brava Sissy Spacek quelli di una vedova che si innamora di Forrest nonostante l’insolita professione che questi si sia scelto.

Old man & the gun, presentato durante l’ultima edizione della Festa del cinema di Roma, è un film godibile, ben ritmato, destinato sicuramente a riscuotere il successo che merita, grazie anche alla carismatica presenza di Redford. Tratto dalla storia vera di questo straordinario rapinatore di banche che, dopo aver portato a termine l’ultimo geniale colpo della sua lunga carriera, fu rispedito in prigione alla veneranda età di 80 anni, Old man & the gun vuole essere a cominciare dal titolo l’ultima immagine autoironica che questo grandissimo e poliedrico artista, coetaneo del personaggio che interpreta, ha voluto lasciare al suo pubblico.

E se ci piace pensare che l’andatura un po’ incerta e le giacche con le spalle un po’ scese siano un modo per il Grande Robert di “gigioneggiare” con lo spettatore instillandogli un inevitabile sentimento di tenerezza, attraverso i suoi occhi tuttavia non possiamo che intravedere la lunga carrellata dei personaggi della sua prolifica carriera che ci accompagneranno ancora per moltissimo tempo, e ancora.

data di pubblicazione:20/12/2018


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RIDE di Valerio Mastandrea, 2018

RIDE di Valerio Mastandrea, 2018

Cosa accade se di fronte ad un lutto, le persone che restano non si comportano secondo “i canoni” che la società detta ed il dolore suggerisce? Mastandrea dedica il suo primo film da regista a chi resta, ossia a coloro cui spetta mostrare pubblicamente il proprio dolore che, non sempre, trova una naturale ed immediata esternazione.

 

 Carolina Secondari (Chiara Martegiani) ha da poco perso il marito Mario, morto in fabbrica a seguito di un incidente sul lavoro. Il suo dramma privato diventa pubblico e politico, coinvolgendo la piccola comunità di Nettuno dove i coniugi Secondari vivono e dove si stanno per tenere i funerali di Stato. Carolina però non piange, non riesce a disperarsi, è bloccata: prova in tutti i modi a provocarsi quella naturale reazione ad un evento così atroce, ascoltando la musica che tanto piaceva a Mario o apparecchiando per la cena come se lui fosse lì, ma nulla scatena in lei la “giusta” reazione. Non è aiutata in questo neanche da Cesare, il padre di Mario, operaio anch’esso che porta dentro di sé il peso di aver convinto il figlio a seguirlo in fabbrica ma che mantiene con orgoglio e fierezza quella durezza da combattente per i diritti della classe operaia. Neanche Nicola, la pecora nera della famiglia e fratello maggiore del defunto, che si materializza dopo anni di volontario allontanamento dalla famiglia, riesce a consolare Carolina, forse perché troppo preso nel rinfacciare a Cesare di aver fatto di Mario un martire per ideali che lui non ha mai condiviso. Ed anche il piccolo Bruno, figlio di Carolina e Mario, in apparenza sembra più preoccupato a fare le “prove” di un suo ipotetico intervento ai funerali del padre, piuttosto che elaborare emotivamente la perdita. Ognuno di loro, dunque, “non si dispera”.

Mastandrea ha messo tutto sé stesso dietro la macchina da presa di Ride: le sue convinzioni, quel suo modo spontaneo e originale di recitare, in un lavoro sicuramente molto pensato e vissuto, dando a Chiara Martegiani il compito di “rappresentarlo” come suo alter ego al femminile. Carolina infatti, nel modo di esprimersi, nell’ironia dello sguardo, nel modo di camminare trascinandosi dietro i piedi a fatica, nel dare al suo corpo una postura ed una andatura scanzonata e disillusa, è Valerio Mastandrea.

Decisamente diversi sono Renato Carpentieri nella parte del padre di Mario, che regala al pubblico un personaggio ricco di pathos seppur anch’esso povero di lacrime, ed il bravo Stefano Dionisi che interpreta in maniera convincente un fratello addolorato, sopraffatto tuttavia più dal livore che nutre nei confronti del genitore che in nome dei suoi ideali ha di fatto condannato a morte suo fratello.

Il film ha un’idea di fondo molto buona ed originale, ed ha anche delle trovare surreali che lo rendono accattivante, anche se poi si perde per aver aperto tanti argomenti importanti senza riuscire però in modo convincente a chiuderli tutti, restituendoci un senso di incompletezza.

Come spettatori paghiamo dunque lo scotto di un regista che ha voluto raccontare troppo, avvertendo nel contempo lo spessore delle tante cose trattate, che fanno di Ride un discreto inizio.

data di pubblicazione:11/12/2018


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PENSAVO FOSSE AMORE…INVECE ERA UN CALESSE di Massimo Troisi, 1991

PENSAVO FOSSE AMORE…INVECE ERA UN CALESSE di Massimo Troisi, 1991

Tommaso, perenne indeciso, e Cecilia, molto possessiva, sono due giovani fidanzati napoletani prossimi al matrimonio. Nonostante la cerimonia sia alle porte, proprio durante la scelta delle bomboniere Cecilia fa una scenata di gelosia su possibili avventure di Tommaso e subito dopo lo lascia. Passa del tempo e Cecilia si fidanza con Enea, uomo maturo, un po’ fanfarone, che le promette grandi cose. Tommaso viene a saperlo dagli amici, e fa di tutto per riconquistarla: dopo rocamboleschi tentativi, i due alla fine tornano insieme e riprendono ad organizzare il loro matrimonio. Tuttavia il giorno delle nozze è Tommaso a non presentarsi all’altare, inviandole una lettera per darle appuntamento in un bar, dove giunge anch’essa in abito nuziale. Uno dice “Viviamo insieme” quando vuol dire che le cose non vanno… Infatti poi quando peggiorano dice: “Perché non ci sposiamo?”… Che proprio cominciate che non ce la fate più: “Che facciamo un figlio?”. E quando alla fine vi odiate ma siete vecchi, dite “Che ci lasciamo proprio adesso che siamo vecchi?!”. È quello il percorso.

Pensavo fosse amore…invece era un calesse è una commedia sentimentale interpretata da una brava Francesca Neri e da un geniale Massimo Troisi che, 27 anni fa, fece un ritratto di coppia esilarante ma immensamente vero incentrando il focus del film sull’amore: in esso si disquisisce sul sentimento che lega due persone, facendo un’analisi dettagliata sull’ incomunicabilità della coppia e sulla difficoltà di costruire un rapporto stabile e duraturo tra un uomo e una donna, perché secondo il compianto Troisi “un uomo e donna non sono assolutamente fatti per il matrimonio”. Il risultato è un vero e proprio saggio intimista sui sentimenti in cui l’attore e regista napoletano si interroga sul perché l’amore si trasformi nel tempo in qualcosa d’altro. Nonostante il pubblico decretò il successo della pellicola e nonostante la colonna sonora affidata al suo grande amico Pino Daniele è ancora oggi un cult, il film non fu accolto bene dalla critica.

Vogliamo abbinare a questa pellicola una ricetta che sembra una cosa… ed invece è un’altra: i ventaglietti di pasta sfoglia o prussiane (in una nostra versione con cannella e frutta candita), che sono dei prodotti di pasticceria noti per essere napoletani ma in realtà… hanno origini francesi, conosciuti anche come palme o cuori.

INGREDIENTI: un rotolo di pasta sfoglia rettangolare – un cucchiaino di cannella in polvere – un cucchiaino di zucchero semolato – 2 cucchiai di zucchero di canna ed altro da parte – qualche scorzetta di arancia candita.

PROCEDIMENTO:   In una ciotolina mettere un cucchiaino di zucchero semolato e un di zucchero di canna, la cannella, le scorzette di arancia candita tagliate in piccoli pezzi, amalgamare bene il tutto e mettere da parte. Stendere la pasta sfoglia sul tavolo da lavoro (potete farla voi o comperarne una già confezionata al supermercato), spolverizzate con il rimanente zucchero di canna la superficie schiacciandolo leggermente con le mani o con un mattarello per farlo aderire alla pasta. Girare il rettangolo di sfoglia al contrario e spargervi sopra il composto di zucchero, cannella e canditi ottenuto in precedenza e schiacciare ugualmente con le mani per farlo aderire bene. Iniziare ad arrotolare entrambi i lati lunghi della pasta sfoglia verso il centro del rettangolo fino a che i due rotoli si incontreranno. Piegare di nuovo le due metà ottenute per sovrapporle. Tagliare ora il rotolo a fette di un cm. circa e passate ogni fettina su altro zucchero di canna che avrete messo in un piatto, facendolo aderire bene su entrambe i lati dei ventaglietti che poi disporrete mano a mano su una placca rivestita di carta da forno. A questo punto non resta che mettere la teglia nel forno già caldo a 190° per circa 15 minuti fino a che non avranno preso un bel colore ambrato. Sfornare e lasciare raffreddare prima di servirli.