I PROFUMI DI MADAME WALBERG di Grègory Magne, 2021

I PROFUMI DI MADAME WALBERG di Grègory Magne, 2021

Commedia raffinata, lieve, come i francesi sanno fare e bene. Le vite dei due protagonisti raccontate attraverso i profumi e gli odori che sovente tratteggiano le nostre vite, gli amori, gli affetti, i ricordi di un’infanzia felice ma anche i fallimenti, e che non necessariamente sono buoni per tutti, ma che sicuramente sono evocativi del proprio vissuto come vere e proprie sensazioni indelebili. Una delicata indagine sull’essere umano visto sotto un’angolatura davvero originale, che sorprende ed allieta.

Anne Walberg – una bravissima Emmanuelle Devos, con una recitazione asciutta, fatta di piccoli gesti e di sguardi eloquenti – è un famoso “naso” contesa per anni dalle più famose maison di profumi (come recita il titolo originale del film Les parfums), ma che nasconde un segreto legato proprio alla sua particolare professione. Donna egoista e prepotente, alquanto snob in ogni cosa che fa o dice, difficile ed estremamente riservata, guarda tutte le persone con cui entra in contatto con una buona dose di alterigia, tenendole a debita distanza. Guilaume – un ironico Grègory Montel, conosciuto ai più per Chiami il mio agente – diventa il suo autista: uomo semplice ma intelligente, con una scarsa autostima che lo porta spesso ad essere un perdente, diviene ben presto la sua vittima sacrificale. Guilaume è disposto a lavorare sodo pur di permettersi un appartamento più grande del suo monolocale di appena 24mq anzi “quasi 25”, solo per poter ottenere dal giudice l’affidamento condiviso con la sua ex moglie della figlia di appena 10 anni, che ovviamente adora e che vorrebbe ospitare una settimana al mese.

Eppure Anne e Guilaume, due esseri così lontani, riescono a trovare un incredibile punto di contatto. Ed è su questa empatia, alquanto improbabile ma così preziosa, che il film si sviluppa e ci convince con un plot originale e delicato che appassiona, supportato dalla bravura di due interpreti d’eccezione calati perfettamente nei rispettivi ruoli degli opposti che si attraggono, contribuendo al sicuro successo della pellicola.

Commedia raffinata, fresca, inebriante come i profumi di Madame Walberg e l’odore di erba tagliata che tanto piace a Guilaume, il film è un viaggio nelle vite di due esseri soli, ma con un grande dono che entrambi non comprendono sino in fondo di avere e che incontrandosi si esalta, si rafforza, come le essenze ben assortite di un’ottima fragranza che entra nella nostra memoria attraverso l’olfatto e accompagna per sempre la nostra vita.

Se ne consiglia la visione rigorosamente sul grande schermo.

data di pubblicazione:12/06/2021


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NOMADLAND di Chloé Zhao, 2021- al Cinema

NOMADLAND di Chloé Zhao, 2021- al Cinema

“Mia madre dice che lei è una senza tetto, è vero? No, non sono una senza tetto, sono senza casa. Non è la stessa cosa…”. Fern, dopo la morte del marito minatore e lo svuotamento di Empire, la piccola cittadina mineraria dove vivevano, decide di vendere tutto e di condurre una vita da nomade attraverso l’America, a bordo del suo van che ha personalizzato come fosse una casa. Il viaggio le servirà per capire che i ricordi non si coltivano solo restando nei posti dove si è stati felici, o circondandosi degli oggetti di una vita ai quali sovente siamo morbosamente attaccati, ma si possono “ritrovare” altrove, soprattutto nelle persone che si incontrano lungo il proprio cammino.

Complice la riapertura delle sale cinematografiche, Nomadland rappresenta a tutto tondo il film per “ricominciare a vivere”, un’esortazione a farlo in modo non convenzionale, a contatto con la natura, in maniera semplice, senza necessariamente ricorrere ai dettami della società tradizionale. La pellicola è un vero e proprio inno alla vita, seppur intrisa di momenti di profonda drammaticità: mai come oggi il suo messaggio è roboante, dopo che un virus è bastato a far crollare i sistemi del mondo intero.

Chloé Zhao, Oscar 2021 per la miglior regia e per il miglior film, già Leone d’oro 2020, sceneggiatrice, montatrice e coproduttrice del film assieme a Frances McDormand, ha soli 39 anni ed è una donna, cinese, che ha saputo dirigere una storia molto “americana”, ma universalmente comprensibile, che parla della ricerca della propria indipendenza. Fern, ruolo che è valso l’Oscar come miglior attrice a Frances McDormand, ri-trova il senso della vita abbandonando la casa, dove aveva vissuto una vita felice con il marito, e spostandosi da un posto ad un altro senza paura della solitudine, facendo lavori spesso stagionali e partecipando, inizialmente con diffidenza, ai raduni tra nomadi, persone che hanno perso tutto e che non sempre hanno scelto di vivere così. Nelle loro storie Fern scopre tanta umanità, tanta sofferenza e tanta voglia di ricominciare, ma anche tanto coraggio nel non farsi sopraffare dal dolore e dalla paura. Lei ha scelto di avere al posto di una casa il tetto del suo furgone sulla testa e sente che la sua vita può continuare anche da lì.

Nomadland non è la solita storia di rinascita attraverso un viaggio on the road, è molto di più, perché si sforza di dare il giusto peso ad ogni cosa, ad ogni gesto, con uno stile asciutto senza retorica e senza lacrime, ma con realismo, con un profondo, sano, realismo. “Una delle cose che amo di più di questa vita è che non c’è un addio definitivo. Ho conosciuto centinaia di persone qui, ed io non dico mai addio per sempre, dico solo: ci vediamo lungo la strada…”. Dobbiamo dunque continuare a viaggiare, perché la vita è movimento, in un mix perfetto di socialità e solitudine.

data di pubblicazione:29/04/2021


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SORRY WE MISSED YOU di Ken Loach, 2020

SORRY WE MISSED YOU di Ken Loach, 2020

Loach si conferma maestro di cinema, e non solo di quello politico inglese. Dopo lo splendido I, Daniel Blake non ci sorprende affatto che questo meraviglioso ultra ottantenne continui a ricordarci quanto crescente disagio ci sia nella nostra società, così imbevuta di benessere, veloce e capricciosa ma altrettanto cieca verso i veri problemi esistenziali dei meno abbienti, purtroppo in continua crescita. Sorry we missed you è una denuncia reale, misurata, profonda sugli abusi ancora perpetuati ai danni delle classi più deboli, che accende in noi il dovere di guardarci intorno per vedere con un occhio diverso quanta sofferenza possa esserci tra coloro che silenziosamente ci circondano ma che, soprattutto, ci sprona ad indignarci.

 

Ricky (Kris Hitchen) e Abbie (Debbie Honeywood) vivono a Newcastle, e possono definirsi una famiglia unita. Lei svolge con infinita pazienza e dolcezza un’attività di infermiera a domicilio per anziani non autosufficienti, mentre lui nella vita ha fatto tanti mestieri senza mai far mancare nulla a sua moglie e ai suoi due figli, Liza Jane di 11 anni e l’adolescente Sebastian. Una coppia dunque di persone semplici, normali, che si vogliono bene e che ambiscono a comprarsi un piccolo appartamento come coronamento di una vita di sacrifici. Al fine di accumulare qualche risparmio per realizzare il loro progetto, Ricky propone alla moglie di vendere l’auto con cui la donna ogni giorno si reca presso i suoi pazienti, ed acquistare con quei soldi un furgone per mettersi in proprio come autotrasportatore, affiliandosi ad una azienda di spedizioni.

Inizia per l’uomo ben presto una vita d’inferno, con giornate di lavoro pesantissime anche di 14 ore consecutive in mezzo al traffico cittadino, senza a volte avere il tempo neanche di fare una pausa per mangiare un panino. Una vita in cui l’imprevisto non è contemplato, perché ogni giornata libera deve essere concordata preventivamente per trovare un collega che possa sostituirsi nelle consegne, ed anche non trovare il destinatario del pacco da consegnare (“ci spiace di non averti trovato” è la frase scritta sulla ricevuta che il corriere lascia sulla porta quando il destinatario non è in casa) può rappresentare un problema.

Ken Loach ci racconta la massacrante corsa contro il tempo della classe operaia del nuovo millennio, attraverso la precarietà dei novelli lavori usuranti che non sono più, o non solo, quelli di una volta, ma nuove professioni talmente stressanti da essere intollerabili, in cui si vive per lavorare e non si lavora per vivere, in cui non ci sono reti di protezione né si può esercitare “il diritto a disconnettersi” ed in cui, paradossalmente, è vietato anche ammalarsi perché “il lavoro verrà dato a chi è più veloce, più economico e più affidabile...”. Torna anche in questa pellicola un altro tema molto caro al regista: il grande paradosso dell’uso della tecnologia, nata come mezzo per ridurre o facilitare il lavoro, ma che invece viene usata per aumentare le ore di lavoro al fine di una maggiore produttività, strappando le persone alla loro vita, agli affetti. Un vero e proprio sfruttamento ai limiti dello schiavismo che si consuma sotto i nostri occhi, e che ha trasformato in pochi anni l’intero tessuto sociale perché ha influito negativamente sulla vita familiare degli individui.

Il film genera una commozione profonda, un vero e proprio pugno nello stomaco, nel cuore e nel cervello di ognuno di noi, perché ci comunica qualcosa di disumano che sta accadendo ora ed il regista non ci fa sconti, neanche sul finale.

Prenderne atto e riorganizzare protezioni a tutto questo, come dice il grande Ken Loach, è forse il dovere degli uomini del nuovo millennio.

data di pubblicazione:06/01/2020


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LA DEA FORTUNA di Ferzan Özpetek, 2019

LA DEA FORTUNA di Ferzan Özpetek, 2019

Alessandro (Edoardo Leo) e Arturo (Stefano Accorsi) sono una coppia da quindici anni, in crisi da un po’ ma senza avere il coraggio di voltare pagina. Finché un giorno, sulla loro bellissima terrazza durante il rinfresco per il matrimonio di amici comuni, arriva Annamaria (Jasmine Trinca), colei che li ha fatti conoscere, amica storica di Alessandro e madre single di due bambini. La donna deve fare degli accertamenti medici e vuole che siano i suoi due amici a prendersi cura dei suoi figli durante il ricovero in ospedale.

 

I bambini rompono quell’apparente equilibrio, e per Alessandro ed Arturo inizia inconsapevolmente un viaggio nei propri sentimenti che sino ad allora non erano stati capaci di fare, ma anche nel proprio modo di amare e su come il tempo abbia operato delle trasformazioni dentro di loro senza che se ne fossero resi conto. Il destino da quel momento in poi farà la sua parte.

Dopo una parabola discendente, sembra arrivato anche per Özpetek il momento della rinascita con un film che segna la sua maturità artistica. Il regista turco fa i conti con il tempo che passa, e lo fa attraverso una pellicola intimista, pacata, a tinte tenui, ma con quello stile noto al suo pubblico seppur privato degli eccessi del passato. La dea fortuna, al pari delle pellicole che l’hanno preceduta (fatta eccezione per i non memorabili Rosso Istanbul e Napoli velata), ha infatti quel marchio di fabbrica che la rende un’opera assolutamente riconoscibile, avvolgente e rassicurante, politicamente corretta, in cui ogni tassello apparentemente scomposto si ricompone su un finale che sa di buono e ci fa sperare.

Durante la proiezione ci assale la rassicurante sensazione di trovarci in situazioni già viste, come se il regista non fosse riuscito neanche questa volta a pigiare un po’ il piede sull’acceleratore ma abbia voluto continuare a muoversi in un’area di comfort che ha caratterizzato quasi l’intera sua filmografia: complice di tutto questo anche un battage pubblicitario iniziato almeno un mese prima che il film uscisse nelle sale, che in parte ha probabilmente rovinato l’effetto sorpresa che ogni storia dovrebbe avere. Ritroviamo quel mondo fatto di famiglie allargate, di case molto curate, di bella gente e di bambini particolarmente intelligenti, di amici saggi che dicono sempre la cosa giusta con frasi che poi rimangono nell’immaginario collettivo, in cui anche le malattie e la morte, seppur facciano parte della vita, ci sembrano in quei contesti più “sopportabili”.

Detto questo, non si può negare che La dea fortuna sia un buon prodotto nazionale confezionato alla perfezione, fatto di inquadrature da cui traspare tutta la sensibilità di Özpetek ed il suo personalissimo modo di osservare il mondo, con attori bravi, anzi bravissimi, tra cui emerge in maniera sorprendente Edoardo Leo supportato dai sempre convincenti Stefano Accorsi e Jasmine Trinca, con dialoghi che in più circostanze arrivano al cuore e che ci fanno spendere qualche calda lacrima, il tutto avvolto dalla voce di Mina che irrompe nel momento giusto e ci fa venire i brividi.

Un film senz’altro da vedere, a cui forse manca quel pizzico di originalità in più che ci saremmo aspettati di trovare e che lo avrebbe reso unico nel suo genere.

data di pubblicazione:21/12/2019


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UNA VITA AL CINQUANTA PER CENTO di Daniele Poto- Ensemble editore, 2019

UNA VITA AL CINQUANTA PER CENTO di Daniele Poto- Ensemble editore, 2019

La protagonista del libro, un romanzo memoir, ha avuto la propria condanna a morte con la diagnosi del 2000. Per deriva genetica ha contratto il morbo di Huntington. La sua vita è un lento rintocco in attesa che il male si manifesti con gli stessi segnali di malattie di quel genere come il Parkinson o l’Alzheimer. La riflessione sulla vita e sul sottile equilibrio che ci separa dal futuro è il delicato crinale in cui si sviluppano emozioni, percezioni, confessioni della protagonista che ha una famiglia devastata dall’ Huntington. Un fratello morto e un altro che lotta contro il male sono l’eredità di un flagello che lascia 50 probabilità per cento di positività e 50 di negatività. Di qui il necessario riferimento al titolo. Una sorta di scommessa di Pascal, di beffardo pari e dispari. Di più, ulteriore problema, la protagonista ha un figlio di venti anni che ignora questa condizione di famiglia. Non sa delle madre e non sa neanche di stesso. La madre è decisa alla rivelazione ma si angoscia nel pensare a come reagirà il ragazzo e alla conseguenza che potrà avere sulla sua vita, sulla decisione eventuale di sottoporsi al test per conoscere la propria sorte o meno, l’unica possibilità di scelta in questo contesto. Ma il libro ha ambizioni più vaste perché è anche una riassuntiva e giornalistica fotografia sullo stato della sanità italiana, un colosso da 115 miliardi che sembra avere i piedi d’argilla negli ultimi tempi, vista l’inamovibilità della cifra stanziata in un momento di prolungata crisi economica e il crescente sviluppo delle malattie rare che tardivamente vengono iscritte nei Lea (Livelli essenziali di assistenza). Ci si interroga su una società che invecchia, di milioni di persone che hanno bisogno di un sostegno che non può essere limitato alla propria famiglia. Un’esigenza sociale insopprimibile e insieme dolorosa quanto necessaria a cui lo Stato per primo dovrebbe far fronte. Il testo contiene comunque messaggi di speranza. La battaglia è difficile ma va combattuta. Nessun male può essere definito in partenza incurabile. Informazione vuol dire consapevolezza e maggiori possibilità di sviluppo per la ricerca.

data di pubblicazione:19/12/2019