ROSSO ISTANBUL di Ferzan Ozpetek, 2017

ROSSO ISTANBUL di Ferzan Ozpetek, 2017

L’atteso ritorno di Ferzan Ozpetek non poteva che sorprendere e avvenire in grande stile. Rosso Istanbul è infatti una pellicola in parte diversa dalle storie alle quali il regista de Le Fate Ignoranti ci aveva abituati, ma, al contempo, racchiude quelli che potremmo ormai definire i topos della cinematografia di Ozpetek.

Siamo nel pieno della primavera – 13 maggio 2016 – e Istanbul è cornice e protagonista di questa storia introspettiva di sentimenti a cavallo tra il passato e il presente.  Orhan Sahin (Halit Ergenç), da 20 anni “esiliato” a Londra, torna nella sua città natia per aiutare in veste di editor l’amico Deniz Soysal (Nejat Isler). Il primo è un famoso scrittore, autore di un libro di successo di favole antiche della tradizione ottomana rivisitate in chiave moderna, il secondo è un famoso regista cinematografico che ha bisogno di Orhan per completare la stesura del suo primo romanzo decisamente autobiografico.

La missione che riporta Orhan a Istanbul viene, però, subito bruscamente arrestata dalla misteriosa sparizione di Deniz. Tuttavia, è come se da questa anomala scomparsa la missione di Orhan divenga un’altra: attraverso la forzata quotidianità nella casa di Deniz, con i suoi parenti e gli amici più intimi (che già conosceva attraverso la lettura della bozza del romanzo), Orhan compirà, inaspettatamente, un percorso di ricerca e resa dei conti finale con i propri sentimenti, con gli spettri di un passato tormentato, fino a una rinascita interiore che lo farà ricongiungere con i propri legami affettivi nonché prepararlo a futuri nuovi amori. Il tema centrale del film è l’importanza dei legami: i legami ci tengono vivi, ci permettono di amare, imparare, soffrire, ma possono anche tenerci intrappolati, prigionieri di angosce, di sofferenza.

Il ritorno a Istanbul, al suo cielo azzurro che si fonde con le acque del Bosforo, l’incontro inaspettato con Neval (Tuba Büyüküstün) – una sorta di Audrey Hepburn ottomana, amica intima di Deniz – e con Yusuf (Mehmet Günsür) – amore tormentato e maledetto di Deniz -, condurranno il protagonista alla riconquista della sua vita, simbolicamente rappresentata con il tuffo senza veli nel Bosforo per attraversarlo a nuoto. Il personaggio di Orhan, ha il volto espressivo e profondo dell’attore Halit Ergenç che con i suoi grandi occhi blu conferisce spessore, profondità ed emotività ad un film costruito prevalentemente sui silenzi, sugli sguardi, sulle parole forzatamente soffocate e gli scorci di una Istanbul cosmopolita, affascinante, elegante, a tratti opulenta – decisamente lontana dagli attentati e dal sangue che purtroppo la stanno devastando -.

Come preannunciato, i grandi temi di Ozpetek ci sono tutti: il forte legame del regista aspirante scrittore Deniz con la madre e le donne che animano la sua casa, l’amore omosessuale libero e tormentato e quello eterosessuale in cui la donna – in questo caso Neval – incontra il vero amore dopo aver sposato un altro uomo; la scena del grigio e freddo obitorio per il riconoscimento di un cadavere (chiara citazione di Saturno contro) e l’immancabile ruolo di macchietta (il personaggio Sibel) affidato come sempre all’attrice Serra Yilmaz . Il film colpisce per l’ottima fotografia, la scenografia e le musiche, il cast turco convince, ma poi la storia, pur catturando lo spettatore nella ricerca della verità attraverso una latente legante tensione che dovrebbe condurre alla soluzione della scomparsa di  Deniz, in alcuni punti si perde lasciando un senso di incompiutezza che penalizza poi l’intero film.

data di pubblicazione: 10/03/2017


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BEATA IGNORANZA di Massimiliano Bruno, 2017

BEATA IGNORANZA di Massimiliano Bruno, 2017

Cosa c’è di più lontano e diverso dei mondi di un professore di italiano e di un professore di matematica che a vent’anni hanno rotto la loro amicizia perché innamorati della stessa donna, Marianna (Carolina Crescentini), e che ora insegnano nello stesso liceo con un approccio agli studenti e alle nuove regole della buona scuola on-line completamente agli antipodi? Se poi questi due professori hanno un rapporto altrettanto diverso con le nuove tecniche di comunicazione elettronica, la ricetta diventa esplosiva.

Da questa “strana” coppia di professori, uomini, padri ed ex amici, Massimiliano Bruno muove le fila di una commedia tragicomica, a tratti brillante, per puntare la luce su una verità amara di questi nostri tempi moderni, ovvero su come la tecnologia e al comunicazione via internet abbiano in gran parte devastato la nostra società e la nostra personalità.

Ernesto (Marco Giallini) e Bruno (Alessandro Gassmann) hanno amato Marianna e amano sua figlia, Nina: Ernesto ne è stato il padre per i primi quindici anni, quando poi si è scoperto che il padre biologico era Bruno. Dopo dieci anni, le strade professionali e sentimentali dei due professori si incrociano di nuovo e il liceo dove insegnano diviene uno dei “set” di un documentario/esperimento antropologico ideato dalla stessa Nina quando incredula vede su internet il video, ormai virale, che ritrae i due padri scontrarsi sul tema dell’importanza dei selfie, dei social neworks – di cui Bruno è dipendente – e sull’inadeguatezza di chi come Ernesto non ha lo smartphone, non ha alcun profilo sui social e non concepisce che a scuola tutto sia ora gestito on line via chat. Ha così inizio l’esperimento: Bruno dovrà vivere per due mesi rinunciando al suo amato smartphone, divenuto ormai una protesi del suo corpo, cancellandosi da tutte le pagine dei social network su cui era attivissimo, mentre Ernesto – sprovvisto di computer ma dotato solo di un cellulare Nokia di vecchia generazione -, dovrà attivarsi sul web e dotarsi di pc, tablet e ovviamente di uno smartphone.

Da questa prova emerge chiaramente come l’aberrante condizione di incomunicabilità dell’uomo moderno, già denunciata e narrata da artisti come Samuel Beckett, solo per fare un esempio, continui ad affliggere i rapporti interpersonali anche dell’uomo che oggi, con piccoli marchingegni, può essere in contatto con milioni di persone, di utenti, sparpagliati in ogni parte del globo. E proprio in questo scenario di disagio è davvero carino il personaggio della professoressa (Michela Andreozzi) che guida e supporta un gruppo di persone, tra cui Bruno, affette dalla dipendenza da social networks e smartphones in un percorso di disintossicazione finalizzato al ritrovamento del contatto umano, della vera comunicazione autentica con il prossimo ma anche, a monte, con se stessi (invitando i “tossicodipendenti da socialmedia” a prendere un appuntamento con se stessi per imparare a ritrovarsi e a coccolarsi).

Tra gag esilaranti, in particolare quelle del personaggio interpretato da Giallini, e le macchiette dei due operatori delle riprese del socio-documentario e del coinquilino strampalato che sotto l’effetto della cannabis da voce a grandi pensieri spiegati attraverso le formule matematiche, il film fa sentire l’intero pubblico un po’ sciocco e infantile per l’assuefazione da cyber comunicazione che ormai tocca trasversalmente tutti noi e in parte anche il sistema scolastico pregiudicando l’apprendimento e la formazione dei giovani studenti. Esasperando e colorendo la figura dell’uomo “selfie addicted” Massimiliano Bruno ci regala una fotografia della società contemporanea per farci riflettere su quel che davvero conta nei rapporti umani, su quel che oggi ci rende ancora più soli e incompresi e sul freno che ognuno di noi (anche le istituzioni) dovrebbe dare alla tecnologia via chat e sul web.

Il tutto viene narrato con un registro giusto, che non sfocia in toni demenziali o spiccioli, che ci fa sentire meno superficiali grazie anche alla vena romantica e dolce che il deus ex machina, ovvero il personaggio di Nina (Teresa Romagnoli), conferisce all’intera storia.

data di pubblicazione: 04/03/2017


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VENERE IN PELLICCIA di David Ives, regia Valter Malosti

VENERE IN PELLICCIA di David Ives, regia Valter Malosti

(Teatro Ambra Jovinelli – Roma, 26 gennaio/5 febbraio 2017)

Toc, toc, toc, ed ecco che quella che per il regista Valter (Valter Malosti) sembrava essere l’inizio di una serata apparentemente tranquilla, piovosa, che chiude una giornata in sala prove deludente, segnerà intimamente il regista. Toc, toc, toc e irrompe in sala, con qualche ora di ritardo rispetto alle audizioni dei provini per il ruolo di protagonista dell’adattamento teatrale di Venere in pelliccia, Wanda Giordan (Sabrina Impacciatore). La ragazza, in apparenza imprecisa, un tantino sboccata ed eccessiva in alcune movenze e nella mise, ritardataria, insomma la classica aspirante attrice senza esperienza e inaffidabile, dimostra fin da subito, con un fare provocatorio moderato da un pizzico di ingenuità infantile, che è pronta a tutto pur di non perdere il treno dell’audizione e avere quella parte. Del resto si chiama Wanda proprio come la protagonista di Venere in pelliccia e chi meglio di lei potrebbe interpretarla?

Il regista Valter (regista nella pièce e dello spettacolo in scena al Teatro Ambra Jovinelli), si lascia persuadere, forse perché inconsciamente ha già avvertito in quella donna un richiamo ancestrale che lo porterà a scrollarsi di dosso alcuni legami stereotipati della sua vita apparentemente retta e borghese abbandonandosi alle sue aspirazioni e desideri più reconditi. Ha così inizio il provino di Wanda Giordan, ovvero un duello tra attrice e regista, tra uomo e donna, tra vittima e carnefice, tra marionetta e burattinaio, tra la ricerca del piacere e quella della vendetta, tra Wanda von Dunajew e lo scrittore Severin von Sacher-Masoch. Lo spettatore viene rapito sugli “spalti” di un “ring” fatto di morbidi tessuti, luci soffuse, silenzio, senza spettatori, colorato solo dalla passione e dai segreti più intimi dell’animo dei due “duellanti”.

Venere in pelliccia mette a nudo l’animo umano e ci mostra come sotto sotto, tolti gli abiti seducenti, i collari e i simboli del piacere, del gioco, dell’effimero e del dominio, l’uomo e la donna non siano poi così lontani e diversi nelle loro voglie, nelle loro paure e fragilità. E proprio per questo i ruoli di Masoch /Valter regista e di Venere/Wanda attrice si scontrano e si mischiano fino a divenire tra loro interscambiabili. Convince e rapisce l’adattamento di Valter Malosti, regista e coprotagonista dello spettacolo, anche grazie alla complicità dell’atmosfera noir resa sul palcoscenico. Sabrina Impacciatore, completamente calata nel suo triplo personaggio, spiazza per bravura e autenticità – dalla presenza scenica, ai gesti fino all’espressività vocale – confermandone, oltre che una bravura indiscussa, il talento di una vera mattatrice del teatro italiano evocativo di mostri sacri come Anna Magnani e Monica Vitti.

Da non perdere!

data di pubblicazione: 27/01/2017


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LACCI di Domenico Starnone, regia Armando Pugliese

LACCI di Domenico Starnone, regia Armando Pugliese

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 25 gennaio/ 12 febbraio 2017)

Lacci, tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone – autore anche dell’adattamento teatrale – dipinge con estrema sincerità un ritratto di famiglia medio borghese decisamente amaro.

 

Wanda (la bravissima Vanessa Scalera) e Aldo (Silvio Orlando) sono sposati da 12 anni. Hanno due figli e Wanda fin da subito dedica la propria quotidianità e giovinezza alla famiglia e alla stesura certosina di quadernetti dove annota le spese di casa; Aldo invece è un professore che presto si trasferisce a Roma dove insegna ed è autore di programmi per la radio e la televisione. Le “parentesi” di Aldo a Roma (del resto le parentesi sono la parte migliore come gli ricorda più avanti l’anziano vicino di casa Nadal (Roberto Nobile) ) gli offrono l’occasione per innamorarsi perdutamente di Lidia e in uno stato confusionale per quattro anni ignorerà completamente la propria famiglia, abbandonandola a se stessa, incurante e inerme di fronte alle lettere di Wanda – vani tentativi di scuoterlo, di suscitare una sua reazione -, al provvedimento del Tribunale di Napoli che dispone l’affido esclusivo dei figli alla madre e al tentato suicidio di Wanda. Finché, all’improvviso, a piccoli passi, Aldo tornerà a Napoli e alla sua famiglia, grazie proprio a quei “lacci di sangu”e rappresentanti dallo stesso modo curioso e strambo con cui lui e suo figlio si allacciano le scarpe. Ecco, quei “lacci” delle scarpe destano Aldo dal suo torpore regalandogli la prima vera sensazione di legame padre-figlio. Ma basterà questa “raccolta dei cocci rotti” per ritornare all’amore e alla felicità dei primi anni di matrimonio? Saranno sufficienti i Lacci? Lo scopriremo trent’anni dopo, quando al rientro nella loro casa romana Wanda e Aldo trovano l’appartamento messo sotto sopra, forse, dai ladri. Non è stato rubato niente e, con la complicità del vicino di casa Nadal, Aldo riordina il caos lasciato dai visitatori misteriosi: tra un coccio e un vecchio libro racconta per la prima volta la sua crisi matrimoniale con Wanda, parla del suo amore per Lidia e di come, nonostante i Lacci, niente sia stato più come prima. Il protagonista, nonostante la presunta incursione dei ladri, ripete che non vuole le inferriate alle finestre proprio per non vedere ogni giorno con i suoi occhi la verità nascosta, comune anche ai suoi figli, ovvero che quella casa, la sua famiglia, sono stati e sono la sua prigione. Poi, in un flashback a 24 ore prima dal presunto furto, divengono maldestri deus ex machina del racconto i figli della coppia ormai quarantenni, i bravissimi Sergio Romano (tra i protagonisti del film Italian Gangesters di Renato De Maria) e Maria Laura Rondanini i quali, come tutti i figli, sono il frutto delle colpe, delle nevrosi, delle mancanze, degli sbagli in buona fede, delle asfissie dei loro genitori, sono vittime del non amore. La famiglia di Lacci raccontata nella sua umana vulnerabilità è una storia dissacrante, dove l’amore di coppia, l’amore genitoriale, la fedeltà, l’affetto sono squarciati da un’unica verità: i Lacci della famiglia non si possono sciogliere, ma al contempo non possono legare indissolubilmente un uomo e una donna, i figli ai propri genitori, se ormai in quella famiglia qualcosa si è rotto e l’unico rifugio è un silenzio ipocrita.

L’allontanamento della coppia – ben reso in apertura dal graduale allontanarsi meccanizzato delle sedie di Wanda e Aldo – è stato dunque irreversibile. Anziano e rassegnato, il protagonista fa un bilancio: gli ingranaggi (ovvero Wanda e si suoi figli) sono rimasti guastati, lui e Wanda hanno vissuto nel disastro e ne hanno fatto il loro modo di essere, nella loro casa – come in tutte le altre case – c’è un ordine apparente che nasconde un disordine reale. Per questo disastro passivamente creato e accettato, Aldo deve rimettere subito a posto il caos reale, ora visibile attraverso il disordine lasciato dai “figli/ladri” della sua libertà, della sua felicità (figli che ribellandosi fisicamente all’ordine apparente di quella casa hanno ormai scoperchiato tutte le menzogne e i tristi segreti dei genitori).

data di pubblicazione:26/01/2017


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ATRÌO. e FABRIZIO BOSSO

ATRÌO. e FABRIZIO BOSSO

(Teatro Eliseo – Roma, 16 gennaio 2017)

Nell’ambito del Festival Special Guest organizzato dal Teatro Eliseo insieme all’Istituto Saint Louis College of Music di Roma, il palcoscenico del Teatro di Via Nazionale ha ospitato un inedito concerto che ha sugellato l’ammirazione di uno dei musicisti di maggior rilievo della scena jazz italiana ed europea, come Fabrizio Bosso, per il trio Atrìo. Gli Atrìo sono Gianluca Massetti (al piano), Dario Giacovelli (al basso) e Moreno Maugliani (alla batteria): tre giovani amici che dal loro garage hanno iniziato e continuato a comporre insieme splendidi brani jazz. Si incontrano, come racconta Dario Giovanelli, e ognuno propone un’idea, un’emozione sulla quale insieme sviluppano il progetto. Aprono il concerto con una versione jazz del celebre brano di Sting “Shape of my hearth”, per poi proseguire e stupire per bravura e bellezza con la presentazione delle loro composizioni – tra cui “Gonzalo”, “Giuseppe” – impreziosite dalla maestria e dall’estro della tromba di Fabrizio Bosso.

Per circa un’ora e mezza la platea dell’Eliseo è stata letteralmente ammaliata e rapita dalla performance di brani che hanno alternato atmosfere nostalgiche, ad aree romantiche ed eleganti, fino a ritmi travolgenti – che rendevano le sedute del teatro un pò “strette” per via dell’inevitabile voglia di lasciarsi andare fisicamente al ritmo dei brani – evocativi di contaminazioni africane con qualche eco proprio del genere r&b.

Gli Atrìo sono una giovane realtà promettente ed era palpabile l’affinità e la sintonia – non solo sul pentagramma – con un maestro come Fabrizio Bosso, tanto da aver scatenato standing ovation e la richiesta a gran voce di un ultimo bis prima del definitivo calo di sipario.

Merita dar spazio, però, anche all’originale apertura del concerto. Hanno infatti introdotto la performance live Atrìo. e Fabrizio Bosso, alcuni brani davvero belli – tra cui anche “I lie” di David Lang, tra le colonne sonore del film La Grande Bellezza  – eseguiti dal Coro del Risuonare del Saint Louis College of Music diretto dal Maestro Diego Caravano (ex componente del gruppo italiano “Neri per Caso”): guardare e ascoltare questi ragazzi, le loro voci talentuose insieme al sorriso e alla gioia del volto e dei gesti di Diego Caravano lasciavano brillare il loro affiatamento e la loro gioia, la passione per il loro lavoro (o amore) in modo così dirompente da infondere serenità e gioia ad ogni spettatore.

Che dire, l’iniziativa – fortemente voluta dal direttore Luca Barbareschi, – di mettere il Teatro Eliseo a disposizione della musica e di possibili nuove commistioni artistiche è sicuramente ammirevole e ben riuscita. Infatti nel Festival Special Guest musicisti come Atrìo. e Fabrizio Bosso eseguono una performance unica, inedita, una vera esclusiva dell’Eliseo, che non fa parte di una tournée. E, in effetti, spesso non c’è niente di meglio che chiudere la giornata si a teatro, ma con uno spettacolo ricco di passione, bellezza e senza dialoghi, parole…Questo concerto, infatti, un’esibizione di arte in musica pura, anche con la complicità del Coro del Risuonare, ha realizzato una catarsi tipicamente teatrale.

data di pubblicazione:17/01/2017


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