LA PRIMA PIETRA di Rolando Ravello, 2018

LA PRIMA PIETRA di Rolando Ravello, 2018

A ridosso delle vacanze di Natale, in una scuola elementare italiana (non meglio identificata a livello territoriale) sono tutti in fermento per la messa in senza della recita di fine anno. Il Preside (Corrado Guzzanti) vive questo momento con grande tensione, come se fosse alla direzione di un musical interpretato da bambini prodigio. Poi le voci stonate dei bambini durante le prove generali lo riportano alla cruda realtà dove non si intravedono prospettive di successo per lo spettacolo o bambini da talent show.

 

A poche ore dalla recita, però, l’improvviso e immotivato lancio di una pietra da parte di Samir contro una finestra dell’istituto scolastico innesca un vero e proprio effetto domino tra alcuni personaggi della scuola. Infatti, la pietra, oltre a mandare in frantumi il vetro di una finestra, colpisce, ferendolo, il bidello (Valerio Aprea) il quale, a seguito del colpo alla testa cade sulle scale insieme alla moglie, la bidella Loretta (Iaia Forte) che, a sua volta, si sloga un braccio. Il Preside, già agitato per gli intoppi dei preparativi della recita, d’urgenza convoca i familiari del piccolo Samir e i coniugi bidelli per mettere fine allo spiacevole incidente. La riunione, a un’ora dall’inizio della recita scolastica, tra il Preside, la coppia dei malconci bidelli cattolici, la madre (Kasia Smutniak) e la nonna paterna (Serra Yilmaz) di Samir, entrambe mussulmane, e la maestra Roversi (Lucia Masino) buddista, disattende le speranze di celeri transazioni nutrite dal preside e non pare destinata a definirsi bonariamente, né tantomeno prima del debutto degli studenti sul palcoscenico. Infatti, paradossalmente proprio il preside, sebbene si proclami un moderno direttore scolastico regista di una recita dalla “sceneggiatura” dedicata a tutte le religioni professate dagli alunni della scuola, viene continuamente messo “alla gogna” dalle polemiche e rigide madre e nonna del piccolo Samir. A sua volta, proprio il preside si ritrova goffamente autore di frasi che infiammo gli animi dei contendenti la pretesa risarcitoria (monetaria o anche mere scuse?). Giochi di parole, malintesi, scaramucce articolate in perfetti rimpalli scoppiettanti e in una costante escalation di risvolti quasi assurdi, danno un ritmo vivace al film. Alla fine chi dovrà rispondere dell’azione dell’incauto lancio del sasso?

La prima pietra è una commedia capace di raccontare con ironia delicata la realtà moderna e il multiculturalismo della nostra società, narrandone anche alunni paradossi, talvolta estremizzati, che traggono spunto da luoghi comuni, ma, prima di tutto, dalla Prima Pietra lanciata senza un reale e oggettivo motivo da Samir (la prima pietra intesa non solo nel senso più noto “chi non ha peccato scagli la prima pietra” del Vangelo di Giovanni, ma anche come primo gesto avventato, sconsiderato e del tutto spontaneo e immotivato di Samir, ovvero il primo atto di ribellione immotivata di una lunga serie che ognuno di noi a un certo punto della propria vita inizia a compiere). Grazie a un cast di attori bravissimi (Corrado Guzzanti e Valerio Aprea sono in stato di grazia), che sembrano vestire da sempre i panni del proprio personaggio, il film è un crescendo di ilarità fino alle lacrime e racconta un momento topico per i cristiani, come le ore che precedono la Vigilia del Natale, per coloro che credono e per chi li circonda e non crede oppure crede in altro, in una chiave originale e inedita.

data di pubblicazione:10/12/2018


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IL BENE MIO di Pippo Mezzapesa, 2018

IL BENE MIO di Pippo Mezzapesa, 2018

Il secondo lungometraggio di Pippo Mezzapesa, presentato nella sezione “Giornate degli Autori” della 75.Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia, regala una fiaba lieve e poetica molto vicina alle vicissitudini italiane degli ultimi anni.

 

Elia è l’ultimo abitante di Provvidenza, un paesino della campagna pugliese. Dopo il devastante terremoto che ha colpito il piccolo borgo, i superstiti si sono trasferiti nella cittadella nuova a qualche chilometro di distanza dalle macerie, mentre Elia è rimasto a difendere Provvidenza divenendone, suo malgrado, una sorta di attrazione turistica. Ma Elia non è il folle che tutti credono. Nonostante il suo migliore amico Gesualdo (Dino Abbrescia) e l’amica Rita (Teresa Saponagelo) – ex collega della moglie di Elia, Maria, deceduta a causa del terremoto – lo spronino con affetto e dolcezza a trasferirsi nel paesino di freddi prefabbricati (la nuova Provvidenza), Elia non sente ragioni. Il suo cuore e la sua vitalità sembrano rimasti fermi alle tragiche ore del sisma e alla morte dell’amata moglie Maria e gli danno la tenacia e l’ostinazione, talvolta incomprensibile, per insistere nel ruolo di custode non solo dei suoi ricordi ma della memoria collettiva. Un giorno, durante gli scontri ormai quotidiani tra il suo immobilismo, ben piantato a Provvidenza, e il sindaco (nonché cognato di Elia), che sta predisponendo lo sgombero della casa di Elia con la forza pubblica per la definitiva chiusura e abbandono del paesino fantasma, sopraggiunge una presenza straniera che potrebbe capovolgere, forse, le convinzioni o la sorte di Elia. Chi sarà questa misteriosa presenza che all’improvviso, come un dolce vento di scirocco, suggestiona Elia regalandogli l’illusione che la sua amata Maria sia tornata da lui? Riuscirà a convincere il buon Elia ad abbandonare Provvidenza?

Il bene mio magistralmente interpretato da un Sergio Rubini in stato di grazia capace da solo di sostenere con vigore e poesia l’intera storia, porta sul grande schermo l’antico dilemma tra il culto della memoria e il falso mito del guardare e andare avanti demolendo e dimenticando il passato. Le atmosfere del piccolo borgo pugliese non sono storicamente datate, ma avvolte da toni e scorci fiabeschi. Il racconto incanta, a tratti fa sorridere, grazie a quella “canaglia” dell’inconfondibile vis comica pugliese di Dino Abbrescia, e commuove con la maestria e la complicità degli occhi del “fanciullino”, mai prima d’ora così forti e penetranti, dell’istrionico Sergio Rubini. In un paese come l’Italia, segnato, illuso da false promesse e per questo doppiamente devastato dalle tragedie dei terremoti e dei sismi di varia natura, Il bene mio aiuta tutti noi ricordandoci che la forza d’animo del mingherlino Elia, la sua tenacia, sono presenti dentro ogni italiano e dovremmo tirarla fuori con la sua stessa leggerezza e caparbietà per far davvero andare avanti l’Italia e superare le ferite del Bel Paese. Da vedere!

data di pubblicazione:12/10/2018


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UNA STORIA SENZA NOME di Roberto Andò, 2018

UNA STORIA SENZA NOME di Roberto Andò, 2018

Presentato alla 75° Mostra di Arte Cinematografica Internazionale di Venezia l’ultimo film di Roberto Andò non convince, un po’ già come era avvenuto con Le Confessioni nel 2016.

 

Vi siete mai addormentati al cinema? Io no, ma c’è sempre una prima volta e non pensavo potesse accadere con una pellicola dalla trama gialla interpretata da un cast di tutto rispetto come quello chiamato da Andò per interpretare i protagonisti della sua Storia senza nome.

Valeria (Micaela Ramazzotti) è una delle segretarie del produttore cinematografico Vitelli (Antonio Catania) nonché ghostwriter del noto sceneggiatore Alessandro Pes (Alessandro Gassman), del quale è stata amante ancora innamorata. L’affascinante e donnaiolo Pes, infatti, da anni non riesce a scrivere nulla di avvincente e anche per l’ultimo lavoro promesso a Vitelli si avvale della penna di Valeria. Proprio a ridosso della scadenza della consegna del plot di Pes, Valeria diviene la “depositaria” di una storia avvincente e misteriosa, quella del furto del quadro “Natività” di Caravaggio, da parte di un altrettanto misterioso e sfuggente signore anziano, Alberto Rak (Renato Carpentieri). Affascinata e rapita da questa storia, la bella ghostwriter la riversa nello scritto della nuova sceneggiatura di Alessandro Pes dal titolo Una storia senza nome. Trattandosi però di una storia tratta da fatti realmente accaduti ed essendoci tra i soci finanziatori del film anche un produttore, legato ai mafiosi protagonisti della Storia Senza Nome riferita a Valeria dall’investigatore in pensione Rak, si innescano subito una serie di “manovre”, sotterfugi e rapimenti finalizzati a mandare in fumo la realizzazione del film: la trama infatti è assai scomoda e compromettente per Cosa Nostra. Nonostante la storia a tinte gialle dovesse avvincere e tenere alta l’attenzione, il film non riesce a decollare e appare lento, monotono, a tratti inverosimile anche per un’interpretazione non brillante degli attori, in particolare di Micaela Ramazzotti e Laura Morante (nel ruolo della madre di Valeria) che sotto la direzione di Andò non sembrano le divine che propriamente sono nel firmamento del Cinema italiano contemporaneo.

Tanti elementi (spunti della trama, la storia della Natività di Caravaggio, l’intreccio tra mafia, arte, cultura e politica, il cast) lasciavano sicuramente sperare in un film d’impatto, dai toni più fermi, decisi, avvincenti. Purtroppo, però, la storia senza nome portata sul grande schermo da Andò si perde, a tratti pare un presa in giro, arranca su se stessa fino a un finale quasi ridicolizzante che sugella la delusione delle alte aspettative dello spettatore.

data di pubblicazione:24/09/2018


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D’ESTATE CON LA BARCA – Regia di Luca De Fusco

D’ESTATE CON LA BARCA – Regia di Luca De Fusco

(Teatro Piccolo Eliseo – Roma, 04/08 aprile 2018)

Grazie al palco del Piccolo Eliseo di Roma si schiude un gioiello letterario sconosciuto ahimè a molti: D’estate con la barca, il racconto d’esordio di Giuseppe Patroni Griffi. Complice la raffinata, minimale ed efficace scenografia, il regista Luca De Fusco e la bravissima protagonista Gaia Aprea, da sola nei ruoli dei 4 personaggi del breve racconto, hanno saputo raffigurare in maniera estremamente reale tutto il sapore dell’estate vissuta da quattro ragazzi, due giovani coppie un po’ inesperte e un po’ incoscienti.

Giulia ed Enrico trascorrono le calde giornate estive insieme a Luisa e Mario. I quattro giovani affittano due barche e si addentrano lungo i pertugi della costa che va da Posillipo a Napoli. E lì tra la culla della barca e le insenature degli scogli trascorrono le giornate travolti dalla passione, arsi dal sole, affaccendati tra lunghe nuotate e silenziose pause dedicate alla meticolosa tintarella. Ma, soprattutto si dilettano in giochi ludici, piccole scaramucce fanciullesche che inevitabilmente divampano in parentesi di impetuosa attrazione erotica. Le due coppie salpano insieme per poi separarsi, ognuna alla ricerca della propria parte di mare più intima, per poi ritrovarsi al tramonto al molo. Il racconto vede da un lato la coppia di Luisa e Mario, che rimane sullo sfondo quasi a rappresentare il lato superficiale del flirt estivo, della mera passione tra due giovani ancora inesperti e goffi. Dall’altro, c’è la coppia di Giulia ed Enrico, che fin da subito lasciano presagire un oscuro contrasto tra amore ed erotismo tendente alla perdizione. Una coppia dalle note indubbiamente profonde e complesse, sono loro i veri protagonisti del racconto. Gaia Aprea assume con estrema fluidità i “panni” dismessi e posticci di crema solare e schizzi di acqua salata delle due giovani ragazze e dei loro amorosi, e con il gioco di luci e delle proiezioni marine lo spettatore si sente lì sulla barca, lì nelle prese in acqua o sulla piccola spiaggetta segreta dove Giulia ed Enrico si abbandonano completamente fino a perdersi l’uno dentro l’altra. Per un’ora intera si respira la spensieratezza, il caldo, l’eccitazione, il clima afrodisiaco dove è costante l’alternanza tra bellezza, amore e perdizione e diviene lampante “l’impronta” della penna di Patroni Griffi che meglio svilupperà questi temi in capolavori come Metti una sera a Cena.

In questo intimo quadro, dove apparentemente pare regnare la leggerezza, irrompe repentino, con un colpo di scena che altrimenti non sarebbe tale, quel che doveva presagirsi nelle note di passione violenta, a tratti malsana, tra Giulia ed Enrico: l’indissolubile legame tra l’amore, nelle sue sfumature più intime, impetuose e oscure, e la morte: tuffarsi in un mare d’amore riassume inevitabilmente il doppio volto della stessa medaglia, dell’ossimoro. Si chiude il sipario e si rimane ancora senza fiato. Un racconto che brilla come una gemma di mare, da non perdere!

data di pubblicazione:05/04/2018


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PARENTI SERPENTI regia di Luciano Melchionna

PARENTI SERPENTI regia di Luciano Melchionna

(Teatro Eliseo – Roma, 06 / 18 marzo 2018)

Ventisei anni dopo il debutto al cinema di Parenti Serpenti di Mario Monicelli, Luciano Melchionna riporta la nota commedia sul palco vibrante del teatro. Nei mitici panni del “patriarca” Saverio che furono di Paolo Panelli l’irresistibile Lello Arena affiancato dalla bravissima Giorgia Trasselli nel ruolo della moglie Trieste.

E’ Natale e come ogni anno Saverio e Trieste stanno per accogliere nella loro casa in Abbruzzo i loro 4 figli. E’ un momento topico perché i due anziani genitori attendono le vacanze natalizie per poter finalmente trascorrere qualche giorno con gli amati figli che ormai da anni hanno “spiccato il volo” verso le loro vite, le loro nuove famiglie, verso una non ben chiara “libertà”, lasciando il paesino di origine e il nido in cui sono stati cresciuti con qualche coccola di troppo di mamma Trieste. Non appena la famiglia si riunisce al completo – ad eccezione di due nipoti – son subito scintille! Saverio, integerrimo carabiniere in pensione innesca continui giochi di parole, strepiti, sfoggia assurde e rudimentali invenzioni realizzate a mano ma non è del tutto chiaro se gli attacchi di demenza senile che colorano e scompigliano la cena della Vigilia e le giornate seguenti siano reali oppure una maschera mediante la quale l’anziano e lungimirante genitore vuole togliersi qualche sassolino con il genero Michele, la nuora modenese Gina e ovviamente con i 4 figli Alfredo, Milena, Lina e Alessandro. Questi ultimi ce la mettono tutta per apparire sereni, realizzati davanti ai loro cari, ma le piccole crepe delle loro vite, le fragilità, la depressione, i fallimenti, che inizialmente si “affacciavano” timidamente come reazione a un discorso, a una battuta o un ricordo della loro infanzia, finiscono con emergere violentemente – ma rigorosamente lontano dagli occhi e le orecchie dei loro genitori per tenerli al riparo da dolorose verità – quando devono decidere come esaudire la richiesta che Saverio e Trieste gli hanno comunicato durante il pranzo di Natale: uno di loro, dalla primavera, dovrà prendersi cura dei due genitori accogliendoli in casa per accudirli nel loro ultimo tratto di vita. I quattro fratelli come usciranno da questo banco di prova che deflagra come un massacro di spietato cinismo, rancore, gelosie represse per anni, dove l’uno ferisce l’altra senza risparmiar alcun tiro mancino? Il “fanciullino” dallo sguardo dolce e disincantato di Saverio/Lello Arena da, poi, voce “fuori campo” a piccole riflessioni/analisi inesorabilmente vere ed amare su un ritratto dell’uomo e della società che, attraverso momenti ludici, puerili e comici, commuove lo spettatore fino al gelo, con un pizzico di pelle d’oca, nel gran finale, quando la trasformazione/deformazione dei parenti in serpenti disumani raggiunge l’apice. Luciano Melchionna – regista poliedrico, ironico, cinico e sensibile “scrutatore” dell’animo umano che da anni porta con successo nei teatri, e non solo, Dignità autonome di prostituzione, spettacolo rivoluzionario e rivelatore di tante sfaccettature e lati oscuri dell’uomo moderno – ha saputo allestire in teatro una versione di Parenti Serpenti davvero toccante, una sorta di presepe decadente, bizzarro e a tratti malvagio, che con la complicità di attori bravissimi e dell’istrionico mattatore Lello Arena, eguaglia egregiamente lo spirito, la vis comica e il grottesco della commedia di Monicelli. Da non perdere!

data di pubblicazione:07/02/2018


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