AMERICAN DHARMA di Errol Morris, 2018

AMERICAN DHARMA di Errol Morris, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Errol Morris, uno dei più importanti documentaristi d’oggi (già premio Oscar per The Fog of War, il film su Robert McNamara), intervista il suo ex compagno di scuola, Steve Bannon, a sua volta giornalista, produttore cinematografico e da ultimo, politico. Bannon è stato un, se non il primo, dei collaboratori di Trump, forse quello che maggiormente ha contribuito alla sua elezione a 47mo presidente degli Stati Uniti. Nella bella e aperta intervista, Bannon non si sottrae alle domande e parla a ruota libera e senza reticenze di fatti e persone della politica USA.

 

Ancora non si è capito se Steve Bannon fosse presente tra il pubblico della prima del documentario di Errol Morris, di certo la sua storia e il suo credo politico, avvicinato a idee che qualcuno definisce “populiste” è stato ben delineato in American Dharma. La definizione della parola viene chiarita da Bannon con riferimento a una pellicola di guerra o meglio di propaganda, Cieli di Fuoco, interpretato da Gregory Peck che, nel corso di una missione particolarmente rischiosa, realizza che il suo “dharma”, sostanzialmente una combinazione di senso del dovere, fatalità e destino, consiste  nell’informare i suoi uomini del rischio di morte che la missione comporta. Per l’ex ispiratore di the Donald (che di recente ha fatto a meno dei suoi servizi), ognuno segue il suo dharma, ognuno ha obiettivi e compiti da portare avanti. Trump, modestamente, nel 2016 si è sentito “il messaggero” di un cambiamento epocale (?) e per divenirlo, mancandogli quasi tutto (preparazione politica, cultura, stile) poteva riuscirci solo con l’aiuto di validi e “scafati” collaboratori, su tutti lui, Steve Bannon, uomo in grado di “sentire la pancia “ del popolo americano, stratega ora prudente ora aggressivo, insomma la guida giusta. Ma allora perché Bannon è scomparso dall’entourage del presidente?

Il filo conduttore dell’intervista (sono occorsi 16 ore di registrazione) scelto da Morris sono  i film hollywoodiani che Bannon ben conosce (da John Wayne a Orizzonti di Gloria al Falstaff di Orson Welles), e l’autore li utilizza per mettere in difficoltà l’intervistato in un crescendo sempre teso e stimolante. Non è questa la sede per riportare i passaggi clou dell’intervista, vi basti sapere che Bannon racconta tanto di sé, ma anche d’altro (ad esempio, come e perché nascono i movimenti populisti, inclusi quelli europei cui lui guarda con attenzione…), ma soprattutto che, in ultima analisi, si tratta di un documentario che pur attraverso un’intervista, grazie a un montaggio e immagini dinamiche e una colonna sonora adeguata, non soffre dei limiti consueti del genere, finendo per attestarsi come esperimento pienamente riuscito.

data di pubblicazione:07/09/2018








CARMINE STREET GUITARS di Ron Mann Canada, 2018

CARMINE STREET GUITARS di Ron Mann Canada, 2018

All’incrocio tra Carmine Street con Bleecher Street, nel cuore di un Greenwich Village, sempre più turistico, sopravvive una piccola bottega artigiana, a prima vista un negozio di chitarre, che ci racconta piccole storie e amore per la musica.  É il  Carmine Street Guitars  gestito dal 1990 da un dolce artigiano, che realizza casse e manici dei suoi pezzi  unici con legname antico,  che lui chiama “le ossa di New York”, recuperato da edifici dismessi della città: alberghi, bar, persino chiese. Ron Mann, il regista,”entra” per cinque giorni nella vita del negozio di Rick Kelly, ricco di aneddoti, personaggi e tante chitarre.

 

Se già una fabbrica di chitarre tra le più famose nel mondo, pensate alla Gibson o alla  Fender, è quasi un laboratorio artigianale, seppure organizzato a modo di catena di montaggio per adeguarlo a grandi produzioni (la sola Gibson a Nashville realizza seimila chitarre all’anno), immaginate cosa possa essere la piccola impresa di Rick Kelly e della sua giovane e biondissima assistente Cindy Hulej, nei 300 metri quadri di Carmine street! Si tratta di una bottega laboratorio, gestita da sole tre persone: Rick e Cindy, già menzionati e la vecchia e arzilla “mom” di Rick, telefonista e contabile, dove regna sovrano un apparente disordine. In quello spazio, si realizzano pezzi unici  di bellissime chitarre per musicisti, ma anche si riparano o ritoccano o modificano  quelle degli affezionati clienti. E che clienti..! Nei cinque giorni, ripresi senza fronzoli velleitari dalla cinepresa del regista, si alternano alcuni dei migliori chitarristi della scena  rock, jazz e country, contemporanea, oltre ad  appassionati più o meno famosi. Non potendoli ricordare tutti, vediamo presentarsi nel negozio, Bill Frisell e Marc Ribot che ci deliziano, provando i raffinati strumenti o chiacchierando amabilmente di legni o di un Village che va scomparendo, Christine Bougie (Bahamas) che non si limita a provare una chitarra , ma canta  una dolce ballata, come pure Eleanor Friedberger. Ancora, fra gli altri, si affacciano Nels Cline che vuol regalare una chitarra speciale al leader della sua band (Wilco), Jeff Tweedy che ha perso da poco il padre (e prenderà la preziosa Mc Sorley,  appena realizzata da Rick col legno datato 1854 della più antica birreria di New York), Charlie Sexton della band di Dylan e Jaime Hince dei Kills. Interessante è il dialogo con Jim Jarmush (che ha prodotto il docufilm), cui molto deve lo stesso Rick in quanto fu il regista, anni prima, a regalargli i primi  preziosi legni antichi che diedero l’idea del laboratorio.

Inutile dilungarsi: il film è un susseguirsi di chiacchiere intelligenti (sul perché Rick ama le Fender, sulle qualità del palissandro, sulla speculazione edilizia al Village), di test su chitarre, di musica acustica o elettrica ad alto livello, di tante cose che rendono questo piccolo documentario una chicca imperdibile per appassionati e non.

Al regista Ron Mann, canadese autore eclettico che passa con grande disinvoltura dal Jaz (Imagine the Sound), ai fumetti, (Comic Book Confidential), va il merito non da poco di aver saputo rappresentare al meglio, in un’ora e mezzo, questa piccola oasi di sogni e semplici  emozioni al centro della città, culla del più sfrenato consumismo. Non sappiamo quante possibilità avremo di vedere questo piccolo gioiello sugli schermi delle nostre città (la miopia e l’inerzia dei distributori nostrani è  notoria), ma se così non fosse cercate di  non perderlo: ne vale assolutamente la pena!

data di pubblicazione:06/09/2018








LA PROFEZIA DELL’ARMADILLO di Emanuele Scaringi, Italia 2018

LA PROFEZIA DELL’ARMADILLO di Emanuele Scaringi, Italia 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Il film, presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, segna la regia dell’esordiente,Emanuele Scaringi, ma deve molto, almeno come idea di partenza, a Zerocalcare (al secolo Michele Rech) autore della graphic novel che ha ispirato la storia e collaborato alla sceneggiatura (con Valerio Mastandrea e Oscar Glioti). La pellicola è la storia del ventisettenne Zero, disegnatore di belle speranze che vive nel quartiere di Rebibbia, arrabattandosi con piccoli lavoretti di sostegno. A casa trova la sua coscienza critica nei panni di un surreale armadillo che lo tiene con i piedi per terra con i suoi consigli. La svolta nella sua vita avverrà in occasione della notizia della morte della sua giovane “vecchia amica” Camille, suo amore adolescenziale, che lo porrà difronte alle scelte importanti della vita.

 

Non saprei dire se i tantissimi appassionati dei fumetti di Zerocalcare hanno ritrovato nella versione cinematografica de La Profezia dell’Armadillo le stesse suggestioni della graphic novel, ma circoscritta al nuovo cinema italiano rivolto ai millennials, il film di Scaringi si presenta come operina fresca e di facile fruizione seppure non banale e, pregio non poco, mai volgare o compiaciuta. Il racconto scorre agile, alternando momenti di autentico divertimento ad altri più tristi e meditativi. Non era facile trasportare sullo schermo il diario a fumetti di Zero, ma l’operazione può dirsi parzialmente riuscita. Deve i suoi principali meriti alla buona sceneggiatura sottostante, ad un commento musicale robusto ma congruo (da Joe Strummer a Boris Vian, da Paradiso ai The Rapture) e, in special modo, ad uno stuolo di attori in ottima forma e mai sopra le righe, normale difetto di molte pellicole nostrane. In particolare, il protagonista, impersonato da Simone Liberati, trentenne attore di Ciampino, è impareggiabile nel mostrare fobie, tic ed idiosincrasie di Zero, ma è ben coadiuvato da altri giovanissimi di talento: l’amico “il secco” Slim (Pietro Castellitto), la dolce Camille (Sofia Staderini). In ruoli da adulti ritroviamo la delicata Laura Morante (la madre imbranata del protagonista), l’armadillo (Michele Aprea, irriconoscibile nella sua imbragatura) e due sportivi famosi: Vincent Candela (il padre di Camille) e Adriano Panatta in un divertente cameo autoreferenziale. Dunque, un buon esordio e certamente, nello stanco panorama nostrano, un’opera intelligente e vivace che piacerà certamente a giovani e giovanissimi (in fondo parla dei loro problemi!), ma che ha tutte le caratteristiche per farsi apprezzare anche da un pubblico più esigente.

data di pubblicazione:04/09/2018








MONROVIA, INDIANA di Frederick Wiseman, 2018

MONROVIA, INDIANA di Frederick Wiseman, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Frederick Wiseman, a torto o a ragione è considerato attualmente uno dei registi storici della documentaristica. Con un passato da laureato in legge (ha anche insegnato alla Boston University) e qualche anno trascorso fra le forze armate e variegate esperienze parigine, dopo il rientro negli Stati Uniti, si fece notare con il suo primo lungometraggio World Cool che segnò l’inizio di una importante carriera.

A Venezia lo ricordiamo per il premio alla carriera nell’edizione 2014 e per l’appassionato Ex libris-The New York Public Library del 2017, viaggio all’interno della biblioteca pubblica della Grande Mela, fondamentale spazio per la vita culturale e la stessa coesione sociale dei newyorkesi. Col suo Monrovia,Indiana ci racconta la vita quotidiana di un piccolo centro agricolo dell’America più profonda.

 

Diciamolo subito, non è solo la durata del documentario (143 minuti), peraltro eccessiva, ma l’intera operazione a lasciare perplessi. Il ritmo è decisamente lento persino per la tipologia dell’opera, alcune scene si prolungano oltre il dovuto mettendo a dura prova la resistenza di un pubblico pur appassionato ai confini del masochismo. Ciò premesso, è evidente che l’idea di partenza era valida, come è giusto riconoscere diversi spunti di interesse; il regista, infatti, mostra non solo la realtà sociale ed economica di uno stato non ricchissimo, ma intende soffermarsi sui valori stessi che permeano quel tipo di realtà: doveri, vita religiosa, una certa autenticità, spesso messi a confronto con altri stereotipi decisamente contrari nella stessa società americana.

Quindi, il film ci mostra nelle oltre due ore uno spaccato della vita quotidiana di Monrovia, eretta a campione di una faccia dell’America contemporanea meno nota, rappresentata in tutti i suoi molteplici aspetti. Wiseman sostiene la tesi che la forza e le contraddizioni di questa società non sempre sono state apprezzate o comprese dalle grandi città della East e della West Coast americana. Nelle parole del regista le motivazioni primarie per il suo ultimo lavoro:

“Ho pensato che un film incentrato su una piccola comunità rurale del Midwest sarebbe stato il giusto corollario alla serie che ho realizzato sulla vita americana contemporanea. Monrovia, nello Stato dell’Indiana, mi ha affascinato per le sue dimensioni (1400 abitanti), la sua ubicazione (non avevo mai diretto un film nel Midwest rurale) e gli interessi culturali e religiosi condivisi dalla comunità locale”.

La coraggiosa scelta del regista ha comunque il merito non da poco di sollevare il velo su un altro aspetto della vita americana più recente, ovvero, lo spopolamento di tante aree del Paese e aver scelto un piccolo centro con poco più di mille abitanti, come pure il rigore con cui ha trattato la materia, testimoniano del suo impegno.

data di pubblicazione:04/09/2018







ACUSADA di Gonzalo Tobal, 2018

ACUSADA di Gonzalo Tobal, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Dolores, studentessa della buona borghesia di Buenos Aires, non si fa mancare niente e vive agiata e libertina  fino al brutale assassinio della sua migliore amica. Due anni dopo, però, è l’unica sospettata di un crimine che catalizzerà in modo morboso l’attenzione mediatica, sottoponendo la giovane e tutta la sua famiglia ad una condizione di stress eccessivo. Dolores si prepara al processo trascorrendo le sue giornate, quasi segregata con i genitori e un importante avvocato che preparano la sua difesa, reclusa nella propria casa mentre i genitori fanno di tutto per difenderla. Ma quando  la data del processo si avvicina, la tensione cresce e  nella famiglia   affiorano nuovi sospetti e segreti mai rivelati prima. La stessa Dolores, con la sua fragilità, metterà a rischio l’esito stesso del processo.

  

É lo stesso regista ad offrire una chiave di lettura del film, in concorso a Venezia, che ha registrato una buona accoglienza nella sala Darsena in occasione della prima. “Come spettatore, sono vittima di un senso di inquietudine costante in presenza dei delitti atroci che la cronaca nera di continuo ci offre: un interrogativo che riguarda la natura umana delle persone vere coinvolte in esperienze in cui il confine tra pubblico e privato è offuscato dalla violenza”, Acusada è allora sia un giallo perché ne ha alcune  delle caratteristiche precipue (i dubbi sulla colpevolezza o meno della protagonista e una discreta tensione), ma è soprattutto un ritratto socio-psicologico di tutto quello che a fronte di un crimine coinvolge quanti si trovano a viverlo, principalmente familiari, amici della presunta colpevole (nella fattispecie), quelli della vittima, legali e media che cavalcano l’onda dell’audience che ogni fatto delittuoso inevitabilmente si porta dietro.

Precisando che Acusada non è film indimenticabile, ha comunque alcune frecce al suo arco: una interessante sceneggiatura (dello stesso Tobal con Ulises Porra Guardiola), una  buona fotografia (Fernando Lockett), uno stuolo di ottimi attori  su tutti Daniel Fanego, Ignacio, il padre), sia nei ruoli degli adulti sia in quelli dei giovani (in particolare, l’intensa Lali Esposito), azzeccati inserti musicali (pop e classica) a sottolineare o smorzare i momenti più drammatici. In cosa difetta  allora  la pellicola di Tobal? Evidentemente nel ritmo che presenta diverse fasi di stanca, ritmo che in ultima analisi relega un film di ottime potenzialità a livello di onesto artigianato. Mi viene da pensare a cosa poteva essere una trama del genere nelle mani di cineasti USA…

data di pubblicazione:04/09/2018