MEMORIE DI UN ASSASSINO di Bong Joon-Ho, 2020

MEMORIE DI UN ASSASSINO di Bong Joon-Ho, 2020

1986, nel villaggio di Gyeonggi, viene rinvenuto il cadavere di una ragazza brutalmente assassinata. A quel delitto ne seguiranno altri a gettare nel panico l’intera regione e gli incapaci e brutali poliziotti locali…

  

Il film, premiato al Torino Film Festival nel 2003 per la migliore sceneggiatura, giunge ora, (prima della chiusura per pandemia…) sulla scia del meritato successo di Parasite e si colloca all’interno del cinema coreano di denuncia del regime militare che in quegli anni teneva la Corea del Sud sotto una rigida dittatura. Quel clima si respira, seppure mai manifestata in modo didascalico, nella pellicola di Bong Joon-Ho e negli sguardi allucinati del suo detective Seo (Song Kang-Ho, tra i migliori attori della sua generazione), inviato da Seul nel piccolo villaggio, attonito a confronto con gli ottusi e violenti poliziotti locali, intenzionati solo a trovare un capro espiatorio. Solo nelle apparenze potrebbe trattarsi dell’ennesimo film sulle violenze di un serial killer, ma, trattandosi di una pellicola del talentuoso regista coreano, già predestinato e ispirato sin dagli inizi, si caratterizza e si distingue rispetto ad altri film di analoghe tematiche. Per la cura dei dettagli, la distanza dai luoghi comuni, l’attenzione rivolta alla psicologia dei personaggi, la speranza (i bambini che non ubbidiscono all’ordine di coprifuoco…), dulcis in fundo, l’ironia. Più che a una soluzione- come un thriller classico avrebbe richiesto – Memories of Murder si pone e pone interrogativi: “come è possibile che l’uomo possa compiere simili atti? ” Sono forse la conseguenza dell’oscurità in cui vive un intero Paese per le aberrazioni del regime?” Sul volto imperscrutabile ma esterefatto di Seo, ci sono questi enigmi, e c’è tutto il senso dello spiazzamento che il regista riesce a trasmettere allo spettatore. La pellicola è tratta dal romanzo di Kim Kwang-rim che si basa su una storia vera avvenuta alla fine degli anni ’80 in Corea del Sud e il film, “giocato su campi lunghi di grande respiro”(Mereghetti docet!), tecnicamente ineccepibile (fotografia e colonna sonora ), svincolato da oltre ogni codice di genere (il poliziesco nello specifico), ci consegna il primo piccolo capolavoro di Bong Joon-Ho, un gioiello, crudo e violento, del 2003, giustamente riportato in sala.

data di pubblicazione:15/03/2020


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IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE di Yi’nan Diao, 2020

IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE di Yi’nan Diao, 2020

Il capo di una gang con grossa taglia sulla testa è in fuga dalla polizia e da una banda rivale. E’ disposto a sacrificarsi per far intascare alla sua famiglia la somma della ricompensa…

 

Dopo quanto è accaduto il 9 febbraio al Dolby Theatre di Hollywood con la vittoria clamorosa di Parasite, nella categoria Oscar per il miglior film dell’anno, qualcosa è cambiato nella miope distribuzione cinematografica di casa nostra. Abbiamo così l’opportunità di vedere e talvolta gustare film della produzione “orientale” che in genere ci venivano negati. Così, nel caso della pellicola in questione, il noir Il Lago delle Oche Selvatiche di Yi’nan Diao, regista cinese, già autore di Fuochi d’Artificio in Pieno Giorno, anch’esso un duro e angosciante poliziesco, circolato nelle sale del circuito d’essai prima della chiusura per Corona Virus. Caratteristiche del cinema di Diao (per semplicità) sono, in generale, la cupezza delle ambientazioni, la pioggia che cade più copiosa che in Val Brembana e un mondo notturno per buona parte della pellicola, per tacer del lago, nella pellicola in questione. E’ certo che il regista di Xi Nan (1969), già vincitore di un Orso d’oro a Berlino, da buon cinefilo, ha ben in testa l’archetipo dell’anti-eroe di tanti noir USA degli anni 40’50’e 60’, ma, mutatis mutandis, ne rivisita l’ambientazione e lo attualizza alla sua realtà: abbandona il bianco nero e costruisce una storia “criminale” in una notte torbida e viscosa. La vicenda si dipana come “appuntamento in una stazione del sud” (come nel titolo originale) per Zhou, appena uscito dal carcere, che dopo una furibonda battaglia fra gang uccide un poliziotto e fugge braccato. Viene agganciato da una prostituta, Liu (forse innamorata di lui) e con lei cerca di sfuggire alla legge e ai rivali. Oltre al protagonista, l’attore Hu Ge, autentica star tv cinese, è il ruolo di Liu, interpretato da Gwei Lun al centro della trama: figura di difficile comprensione, personaggio ambiguo e stratificato sarà lei, donna dai molti padroni, a guidare Zhou nell’improbabile speranza di salvezza. Con stile ben collaudato, l’autore alterna, con perizia tecnica e ispirazione scene realistiche ad altre oniriche, mai gratuite, senza dimenticarsi di sottendere nel finale il senso di una sorta di giustizia risarcitoria per i più deboli. Certamente una conferma per quello che viene definito l’astro nascente della nuova cinematografia cinese e un film da vedere o recuperare quanto prima…

data di pubblicazione:11/03/2020


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THE NEW POPE di Paolo Sorrentino su Sky Atlantic HBO, 2020

THE NEW POPE di Paolo Sorrentino su Sky Atlantic HBO, 2020

Avevamo lasciato Lenny Belardo, Pio XIII, papa dal tormentato rapporto con la fede, in coma a Venezia. The New Pope riprende la narrazione e ne rappresenta la continuazione diretta fino alla conclusione dopo nove episodi in cui si succedono eventi tra il reale e l’inverosimile…

In tempi di Corona Virus può essere una buona idea starsene a casa e godersi una delle più stimolanti serie TV mai prodotte. Creata e diretta, alla sua maniera da Paolo Sorrentino (per alcuni autore di capolavori, per altri di meri esercizi di stile …) per Sky Atlantic, HBO e Canal plus è il sequel di, The Young Pope e racconta la storia di un nuovo Papa, individuato dal “più longevo Segretario di Stato del Vaticano”, il cardinale Voiello (ancora una volta magistralmente interpretato da uno strepitoso Silvio Orlando). In realtà, le prime immagini ripartono dal letto di ospedale con Pio XIII in coma e continuano con il breve pontificato di un Papa, modesto, inizialmente “manovrato” dalle potenti gerarchie vaticane che misteriosamente scompare quando comincia a mostrare segni di troppa autonomia di pensiero… A quel punto, l’astuto Voiello riesce a far eleggere Sir John Brannox, aristocratico inglese, considerato un moderato, che prende il nome di Giovanni Paolo III. Inutile negare che l’affascinante personaggio calza a pennello per uno straordinario interprete come John Malkovich. Trattandosi di nove puntate e di tanti eventi che si susseguono fra colpi di genio, tradimenti, vendette, virtù e miserie non è sulla storia che mi soffermo ulteriormente.

Come in ogni lavoro di Sorrentino, chiaramente un regista che divide la critica e il pubblico , il segno distintivo oltre il plot narrativo è la puntigliosa tessitura delle immagini : ogni dettaglio, in apparenza superfluo, che assume un suo rilievo e una sua pregnanza artistica di grande pregio. Certo, le storie e i personaggi , dai protagonisti ai comprimari, sono tutte intriganti, ma ,ripeto, sono le immagini a lasciare il segno: una Venezia fotografata come solo Visconti aveva osato anni prima, mai turistica, struggente, evanescente, monumentale! La cappella Sistina, San Pietro, il Vaticano con i suoi giardini, la Pietà del Michelangelo, le abitazioni lussuose dei cardinali, le scene oniriche del Lido o delle sagrestie con suore che ballano a ritmo rock, tutto è perfettamente miscelato a fornire un affresco unico, a rendere una visione indimenticabile, a prescindere dalle implicazioni mistiche o dissacranti di cui gli scaltri sceneggiatori hanno disseminato il complesso canovaccio. Degli attori, i principali (cui va aggiunto ovviamente un Jude Law, ironico e sornione quanto lacerato e misterioso), ho accennato , ma anche i personaggi di secondo piano sono bravi tutti a pari merito; segnalo, a caso ma non per caso , la deliziosa Cecile de France , la tormentata e sexy Ludivine Sagnier, come pure, Massimo Ghini e Javier Camarà che non sono da meno nei rispettivi torbidi ruoli. Naturalmente trattandosi di un’opera di “relativa” fantasia, direi “relativamente” distopica, non sta a me entrare in polemiche su quanto ci sia di anticlericale, quanto di spirituale, quanto di critica e/o riferimenti all’attualità, quello che è corretto rilevare è ciò che rimane negli occhi, dopo nove magistrali lezioni di cinema: una storia complessa e variegata, attori verosimili, musiche e coreografie coerenti, scene mozzafiato per uno spettacolo bello, visionario e poetico al tempo stesso.

data di pubblicazione:09/03/2020

 

LONTANO LONTANO di Gianni Di Gregorio, 2020

LONTANO LONTANO di Gianni Di Gregorio, 2020

Un terzetto di anziani romani di trastevere ipotizza di cambiare vita e godersela in un paese lontano dal potere d’acquisto più alto. Ma quando la decisione è imminente nella combriccola affiorano molte incertezze…

  

Di quante frecce al suo arco dispone questo nuovo film di Gianni Di Gregorio, già apprezzato al Torino Film Festival 2019? Davvero tante, pur nella garbata malinconia e nella sua apparente leggerezza. Ancora una volta il mondo, ma meglio sarebbe dire il microcosmo, in cui si muove il regista romano “tuttofare” ( self made man, stonerebbe nello specifico!) è ancora una volta quello “trasteverino”, una Roma in parte scomparsa, con Piazza San Cosimato, l’indolenza, il vino bianco, le chiacchiere da bar. Questa volta, Di Gregorio, dopo i ritratti generazionali, in prima persona (Il Pranzo di Ferragosto, Gianni e le Donne) e lo “scatto” di Buoni a Nulla, si avvale di forti comprimari per una commedia che non rinnega il suo cinema, sempre caratterizzato da umanità, ironia e leggerenza, senza essere mai banale.

Questo autore che i Francesi ci invidiano alla stregua di un Paolo Conte o Gian Maria Testa nella canzone o di un Nanni Moretti nella Settima Arte, da piccolo artigiano e quindi con pellicole dai costi risibili si riafferma con la sua cifra distintiva ai massimi livelli. La storia è apparentemente semplice: due amici, uno professore di latino e greco (lo stesso Gianni Di Gregorio), l’altro, Giorgetto, ignorantello che non ha mai lavorato veramente (Guido Colangeli) s’imbattono in Attilio (il compianto Ennio Fantastichini nella sua ultima magistrale interpretazione) e con lui, previe le consulenze di un amico (il grande Roberto Herlitzka) decidono di espatriare nelle Azorre. Nelle mani di Di Gregorio la materia si trasforma in una commedia che fa sorridere, ridere, ma anche riflettere in modo mai urlato sul nostro presente.

Così, ad esempio, anche il tema dell’immigrazione è affrontato con mitezza e in modo mai didascalico, attraverso il ruolo di Abu, giovane clandestino, lui sì vero viaggiatore, voglioso di raggiungere il fratello in Canada. Il film, dunque, può dirsi pienamente riuscito e godibile per tanti versi: la magnifica caratterizzazione della sonnolente fauna trasteverina, bonaria, non priva di tolleranza e umanità quando necessaria, un plot minimalista, ma che sa parlare di precarietà e immigrazione, di vecchi e nuovi poveri, e tre attori in stato di grazia, tutti perfetti nei rispettivi ruoli. Insomma, un piccolo grande film, ovvero cinema artigianale ma di altissimo livello: un gioiellino dove l’autorialità e l’originalità di scrittura lasciano il segno. Se proprio un appunto minimo gli si può muovere è forse un finale – che non sveliamo – diremmo, un tantino “veltroniano”, leggi buonista, che comunque nulla toglie alla sincerità e all’autenticità di uno dei migliori film italiani della stagione.

data di pubblicazione:22/02/2020


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IL DIRITTO DI OPPORSI di Daniel Cretton, 2020

IL DIRITTO DI OPPORSI di Daniel Cretton, 2020

La storia vera di Bryan Stevenson, giovane avvocato, laureato ad Harvard, che divenne famoso per aver difeso i detenuti di colore del braccio della morte di un carcere dell’Alabama privi dei più elementari diritti in un sistema giudiziario ostile e razzista.

 

Se questa fosse una pellicola degli anni ’50, ma che dico, ’60 potremmo anche non sorprenderci più di tanto delle ingiustizie, dei pregiudizi, del razzismo tout court di cui sono vittime gli afro americani. Il dato sconfortante è invece che i fatti narrati dal regista Destin Daniel Cretton nel suo sodalizio artistico con Brie Larson (qui anche come attrice nel ruolo di un’avvocatessa locale che si batte per la gente di colore), si sono svolti di recente e sono stati raccontati prima che nel film, nel libro di Stevenson Just Mercy, Storia di Giustizia e Redenzione del 2014, dunque in piena epoca Obama. Del resto, la cronaca e di conseguenza la filmografia statunitense non hanno mai mancato di raccontare le continue umiliazioni patite dai neri d’America. Dai tempi di Il Buio Oltre la Siepe ai film di Spike Lee, alle innumerevoli e spesso notevoli pellicole sui comuni abusi da parte di poliziotti spesso in odore di razzismo (ne cito solo alcune del 2018: Skin, Il Coraggio della Verità, Che Fare Quando il Mondo è in Fiamme, Se La Strada Potesse Parlare ……), tutte pellicole che spesso iniziano con l’arresto di un ignaro afro americano fermato in auto dalla polizia in cerca di colpevoli a prescindere… Anche nella storia narrata da Cretton l’incipit è il medesimo: Walter MacMillan, che nel film ha il volto di Jamie Foxx, lavoratore nero, viene fermato e in seguito accusato del delitto di una giovane bianca. La più becera provincia dell’Alabama all’unisono (polizia, magistratura, governatore) si accontenta di prove e testimonianze superficiali e “condanna” Mac Millan (“..basta guardarlo in faccia!”). Ed è a questo punto della storia che entra in campo il brillante avvocato Stevenson, interpretato da Michael B. Jordan (Black Panter, Creed),il quale non crede alla colpevolezza di Mac Millan e decide di difenderlo nonostante il suo stesso assistito, oramai già nel braccio della morte e in attesa dell’esecuzione della sentenza, e con lui la locale comunità nera abbia perso ogni speranza. Ovviamente il regista è totalmente in sintonia con il giovane “eroe” e lo segue nella sua drammatica lotta contro pregiudizi e ingiustizie riuscendo infine a rendere giustizia all’innocente. Come dicevo in premessa non è il primo e temo non sarà l’ultimo film sul razzismo e più in generale, sulla paura del diverso, ma la pellicola ha efficaci frecce al suo arco: è asciutta, mantiene un buon ritmo, è ottimamente recitato e, purtroppo, riesce a fotografare ancora una volta in modo impietoso il volto di un’America che tollera a tutt’oggi inique disparità sociali e razziali.

data di pubblicazione:11/02/2020


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