72^ MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA

72^ MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA

(Conferenza stampa-Roma, 29 luglio 2015)

Sorprendente è stato l’aggettivo più usato da Alberto Barbera, Direttore della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, alla consueta conferenza stampa di presentazione dell’edizione 2015.

E Barbera, che è uomo di profonda serietà, non intendeva affatto usare quell’aggettivo in senso trionfalistico, ribadendo al contrario la difficoltà di comporre un programma che accontenti le aspettative più altisonanti; il suo sorprendente si riferiva invece al contenuto di molti film che per una fortunata coincidenza ed ognuno per un diverso motivo, in qualche modo, rappresenteranno una sorpresa anche rispetto al background dei loro rispettivi autori. Barbera ha parlato anche di programma spiazzante, vario, con grandi film hollywoodiani ma anche piccole realtà; e parlando dei temi trattati ha usato spesso anche il termine disturbante. Fiduciosi ed incuriositi dalle sue parole, ci viene tratteggiato un profilo di questa edizione che conta 55 pellicole, contro le 54 dello scorso anno, e tra queste  21 sono in Concorso nelle quali si contano 4 pellicole italiane definite da Barbera “la pattuglia italiana”, ed altre 18 Fuori Concorso; ben 32 sono le pellicole nella sezione Orizzonti (di cui nell’ambiente si dice già un gran bene  e di cui sarà assicurata la trasmissione contemporanea su piattaforme streaming), definita dal Direttore Artistico un altro concorso con pari dignità rispetto a quello ufficiale.

Confermato il premio alla carriera a Bertrand Tavernier, sono attesi altri festeggiamenti centenari, altri film restaurati e l’inaugurazione di un’arena destinata soprattutto al grande pubblico che, passando per il Lido, può godersi un appuntamento cinematografico senza accrediti né prenotazioni di sorta.

Tra i grandi registi registriamo la presenza di Bellocchio, Wiseman, Sokurov, Skolimovsky, Tsai Ming Liang, Kaufman, Scorsese (con un corto interpretato da attori del calibro di De Niro, Di Caprio, Pitt); tra gli italiani in Concorso si registra il ritorno di Luca Guadagnino con un remake de La piscina. Moltissimi gli autori anche dell’America Latina, vera e propria novità rispetto alle passate edizioni, mentre ahinoi è sfumata la presenza dell’ultimo Tarantino.

 data di pubblicazione 29/07/2015

 

DIRITTO AL CORTO – FESTIVAL DEL CORTOMETRAGGIO SOCIO-GIURIDICO

DIRITTO AL CORTO – FESTIVAL DEL CORTOMETRAGGIO SOCIO-GIURIDICO

Si è da poco conclusa la prima edizione di Diritto al Corto – Festival del cortometraggio socio-giuridico, iniziativa promossa dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università “Roma Tre”, con il patrocinio dell’Assessorato alla Creatività, con il patrocinio del Consiglio Regionale del Lazio e dell’Assessorato alla Cultura, Creatività e Creazione artistica di Roma Capitale (www.dirittoalcorto.it).

Le proiezioni, tenutesi il 28-29 maggio e il 2-3 giugno 2015, hanno mostrato quanto eterogenee possano rivelarsi le prospettive di quell’attributo “socio-giuridico”, inserito nel sottotitolo del Festival e che indubbiamente rappresenta l’elemento di più evidente originalità dello stesso.

La serata conclusiva si è tenuta presso il Teatro Palladium di Roma, di fronte a una platea gremita. Apertosi con un omaggio musicale di Andrea Rea, l’evento si è chiuso con la premiazione dei cortometraggi vincitori. I premi sono stati sono stati attribuiti da una Giuria di esperti, presieduta da Pupi Avati e composta da Valerio Aprea, Enrico Carocci, Valeria Fabrizi, Lilli Garrone, Blasco Giurato, Francesca Inaudi, Davide Perino, Pino Strabioli.

Questi i premi assegnati:

Primo premio “Miglior cortometraggio”: Un día de campo (di Carlos Caro) – Spagna

Premio speciale “Pupi Avati”: Un día de campo (di Carlos Caro) – Spagna

Premio speciale della Giuria (ex aequo): Cuando todo pase (di Suso Imbernon) – Spagna  e Bishtar az do saat (di Ali Asgari) – Iran

Premio “30 e lode”: La smorfia (di Emanuele Palamara) – Italia

L’ideatore e il Direttore artistico di “Diritto al Corto” è Antonella Massaro, Ricercatore confermato di Diritto penale per professione e Accreditata per passione. Quasi doveroso, quindi, tracciare insieme a lei un bilancio sul Festival, a conclusione di un’esperienza che tutti gli Accreditati hanno seguito fin da quando quel progetto ha iniziato a muovere i suoi primi (incerti) passi.

Antonella, la prima domanda è d’obbligo. Un Festival di cortometraggi organizzato da un Dipartimento di Giurisprudenza: non ti è sembrata una scelta “azzardata”?

Sì, all’inizio è stata indubbiamente la mia remora principale. L’entusiasmo e la buona volontà a volte non bastano, rendendosi per contro necessarie delle competenze professionali. Ci sono state però delle circostanze che mi hanno convinto a continuare. Anzitutto organizzo già da tempo proiezioni di film in Dipartimento, alle quali seguono incontri seminariali o veri e propri convegni sui temi emersi dalla pellicola. Non è necessario che sul grande schermo compaiano giudici o avvocati per valorizzare il connubio tra cinema e diritto: abbiamo proiettato Lo Stato della follia, Miele, Terraferma e le numerose tesi richieste alla nostra cattedra sui temi degli ospedali psichiatrici giudiziari, delle pratiche di fine vita e dell’immigrazione irregolare mi hanno convinto che il cinema possa funzionare (anche) quale autentico strumento didattico. Certo, il rischio che si corre è quello di una pressoché esclusiva valorizzazione del “contenuto” a tutto discapito del “contenitore”, ma, visti i risultati, è un rischio che ho accettato di correre volentieri.

Quanto a Diritto al Corto, poi, abbiamo cercato di bilanciare l’inesperienza dei selezionatori con la autoevidente competenza della Giuria di esperti ai quali abbiamo affidato la scelta dei cortometraggi vincitori.

 

Parliamo proprio della Giuria. Una prima edizione tenuta a battesimo da un Presidente di eccezione come Pupi Avati, che ha attribuito anche un premio speciale.

Sì, Pupi Avati ci ha mostrato fin da subito una così cordiale disponibilità da averci sinceramente sorpreso. Ha accettato il nostro invito raccogliendo quella che, per molti aspetti, era ancora un esperimento dall’esito affatto scontato. Ha visionato e valutato i singoli cortometraggi in tempi rapidissimi, malgrado i suoi numerosi impegni. Ha voluto scrivere una motivazione per il suo “premio speciale”. E ci ha fatto i complimenti per il lavoro che abbiamo svolto. Ecco, questo è stato il “premio speciale” per me e per l’intera organizzazione.

Tutti i giurati, per la verità, hanno mostrato, anche pubblicamente (durante la serata conclusiva), il loro apprezzamento per il nostro lavoro e per il livello dei cortometraggi inseriti in selezione. È stata una conferma significativa per noi tutti, che, insieme alla voce emozionata dei registi ai quali abbiamo comunicato l’esito della nostra selezione, è forse il fotogramma più rappresentativo di questa prima edizione di Diritto al Corto.

Dalle tue parole emergono l’impegno e la difficoltà con la quale avete proceduto alla selezione dei cortometraggi iscritti al Festival. È un’impressione corretta?

Un’impressione più che corretta. Ci siano trovati a gestire un numero e un livello tecnico-artistico di cortometraggi che non avremmo potuto neppure lontanamente immaginare quanto abbiamo pubblicato il nostro bando. Lo abbiamo fatto a tarda notte, magari attorno al tavolo della sala riunioni di uno studio da avvocato o affidandoci a un boccale di birra che facesse da spartiacque tra il nostro lavoro e la nostra passione. Non è stato semplice, ma si è trattato di una sfida che io e tutti gli organizzatori siamo stati felici di aver raccolto.

Quando abbiamo fatto realizzare da Mike Miranda, media partner di Diritto al Corto, il logo del Festival, non sapevamo bene cosa quel regista in toga si sarebbe trovato a dover dirigere. Abbiamo recitato a soggetto, senza un copione ben definito. Con tante difficoltà, tanti errori, ma con la voglia di vedere come andasse a finire la storia della strana coppia “toga e megafono”.

La selezione ufficiale e quella dei cortometraggi fuori concorso mostrano una significativa varietà di cortometraggi, tanto per Paese di produzione quanto per temi affrontati. Puoi dire di condividere il “verdetto della Giuria”?

 

Abbiamo cercato di proporre una selezione che fosse il più rappresentativa possibile del materiale visionato: per nazionalità, per temi affrontati e per background produttivo del cortometraggio selezionato.

Volendo indentificare un filo conduttore, lo si potrebbe individuare nella contrapposizione, spesso dialettica, tra Diritto e Giustizia, tra ciò che è scritto nelle leggi e nei codici e ciò che si avverte “giusto” sulla base di una valutazione extra (o pre) giuridica. Una contrapposizione che, durante la serata finale, ho voluto sintetizzare leggendo, in sequenza, i celebri versi di Antigone (ripresi, in qualche modo, dal cortometraggio Prohibido Arrojar Cadáveres a la Basura di Clara Bilbao) e le parole della requisitoria del Cons. Iacoviello relativa al “processo Eternit”.

Ben due cortometraggi italiani, del resto, avevano da sfondo il “caso Ilva”: Alle Corde di Andrea Simonetti (in concorso) e Thriller di Giuseppe Marco Albano (fuori concorso), quest’ultimo vincitore del David di Donatello 2015.

Siamo stati poi significativamente colpiti dall’elevato numero di cortometraggi spagnoli “ispirati” dai temi legati alla crisi economica degli ultimi anni. Ne abbiamo inseriti due in selezione ufficiale: Metros útiles di David Cervera e Cuando todo pase di Suso Imbernón, vincitore del premio speciale della Giuria.

Il premio speciale della Giuria ha in realtà fatto registrare un ex aequo, attribuendo un trofeo anche a Bishtar az do saat di Ali Asgari, storia di divieti giuridici, regole culturali o religiose e imperativi morali. I giurati, fatta eccezione per il Prof. Carocci, non sapevano che Ali è stato uno studente del Dams di “Roma Tre”: una bella coincidenza, che ha reso ancor più “simbolica” la consegna del trofeo.

Il premio “30 e lode”, assegnato da una Giuria di 30 studenti, specializzandi e dottorandi del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università “Roma Tre”, è andato a La smorfia di Emanuele Palamara, delicata ma penetrante fotografia della tutela dell’arte e della cultura nel nostro Paese. Il fatto che l’ultima serata si tenesse proprio presso il Palladium, teatro che di certo non ha vissuto un semplice momento di transizione, ha attribuito al premio, almeno secondo me, una valenza del tutto peculiare.

L’autentico trionfatore del Festival è stato però Un día de campo di Carlos Caro, che, girato in “campo di lavoro” ugandese, rappresenta un tanto potente quanto commovente appello a una più effettiva tutela dei diritti dell’infanzia. Un día de camposi è aggiudicato tanto il premio speciale assegnato dal Presidente Pupi Avati quanto il primo premio come miglior cortometraggio, che prevedeva anche una somma in denaro. Siamo stati davvero felici nel sapere da Carlos che l’intera somma confluirà nella campagna di raccolta fondi, associata al cortometraggio, che servirà a donare un aiuto concreto ai “protagonisti” del cortometraggio. I fondi raccolti saranno usati anche per costruire una scuola.

Per rispondere alla domanda, sarebbe stato difficile anche solo sperare che i “nostri” premi riassumessero così efficacemente lo spirito che, fin dalla prima ed embrionale idea, ha animato Diritto al Corto.

data di pubblicazione 14/06/2015

YOUTH La Giovinezza di Paolo Sorrentino, 2015

YOUTH La Giovinezza di Paolo Sorrentino, 2015

Deve essere un posto perfetto per rilassarsi, osserva banalmente il “ciambellano” della Regina Elisabetta. E’ soltanto un posto per rilassarsi, risponde il direttore d’orchestra Ballinger (un immenso Michael Caine), che dietro il suo imperturbabile british humor sa benissimo che quell’albergo-oasi di benessere è molto di più. Ballinger, oramai in pensione, non vuole più dirigere alcuna orchestra, nemmeno quella commissionata da Buckingam Palace, a causa del dolore per l’assenza della moglie Melody, melodia di nome e di fatto, visto che sulla sua esistenza ha costruito gran parte della sua brillante carriera. Ogni estate lui e il suo miglior amico, il regista Mike Boyle (Harvey Keitel) si ritrovano in questo luogo incastonato tra le montagne svizzere; Mike, supportato da un gruppo di giovani sceneggiatori, si è arenato nella scrittura corale della terza stesura del suo film, che lui stesso definisce il suo testamento, di cui tuttavia non riesce a trovarne il finale.

Il soggiorno estivo raccontato da Paolo Sorrentino è diverso da ciò che inizialmente appare agli spettatori e di questa diversità sembrano esserne consapevoli solo i due anziani protagonisti. Youth è il continuo confronto tra due generazioni: gli ottantenni e i trentenni, ma in quest’altalena il desiderio di progettare e di guardare avanti non è appannaggio solo dei secondi, perché la giovinezza è qualcosa che può essere legata all’arte, come la musica o il cinema, ma non certo di esclusivo appannaggio dell’età anagrafica. E così le età si mescolano, conta solo il sentire, il desiderare. E come il Maestro Ballinger riesce a scavare dentro se stesso e a vivere il proprio dolore e le proprie emozioni grazie alla figura della figlia Leda, così Leda si trova a ricostruire la sua vita e si riaffaccia all’amore proprio grazie alla convivenza forzata con il padre nel centro benessere. Analogamente, il regista Mike deve circondarsi dell’inesperienza e dell’ingenuità di un variegato gruppo di giovani sceneggiatori per portare a termine la stesura del suo ultimo film, che tuttavia dovrà essere interpretato da una attrice (Jane Fonda) ormai avanti negli anni; e così, in questo continuo scambio vitale tra vecchio e nuovo, anche il giovane attore Jimmy Tree (Paul Dano) prepara il personaggio del suo prossimo film osservando e ascoltando attentamente i movimenti, gli sguardi, i pensieri degli “anziani” che s’incrociano tra la piscina termale, il solarium, i giardini dell’albergo e le passeggiate di montagna.

La Giovinezza rappresentata da Sorrentino è presente in ogni personaggio a cominciare dai due amici ottantenni che ancora ridono delle loro scommesse e guardano al presente con maggiore leggerezza ed incoscienza, lasciando riaffiorare quel sentire giovanile allorquando si confrontano sui ricordi dell’infanzia e su quello del primo amore per la stessa ragazza in età adolescenziale o mentre osservano incantati la bellezza statuaria di Miss Universo mentre nuda si immerge nelle acque della loro stessa vasca termale mostrandosi diversa dal personaggio da copertina patinata.

Non tanto un film sul tempo che passa inesorabile, dunque, bensì un film sulla progettualità che mantiene giovani e sull’amore. E se in Cocoon di Ron Howard (1985) un gruppo di anziani ritrovava l’energia e la luminosità della giovinezza immergendosi in una grande piscina di una villa disabitata, nell’incantevole albergo svizzero di Sorrentino i massaggi, le abluzioni durante le saune e nella piscina termale non regalano alcun sollievo analogo, perché i protagonisti non ringiovaniscono grazie ad esse, ma insegnano ed imparano ad amare e senza artifici estetici tutto appare armonioso e perfetto sebbene perfetto non sia.

Ogni singolo dettaglio nel film genera emozione, complice anche la fotografia e l’impeccabile miscela delle canzoni della colonna sonora; forse solo la figura di quel Pibe de Oro, tra gli ospiti illustri dell’albergo svizzero, al quale il regista dedicò un affettuoso ricordo dal palco dell’Accademy, riesce a marcare il distacco con un passato glorioso ed energico rispetto ad un appannato presente, dando una connotazione nostalgica alla assoluta leggerezza di questo film.

 

data di pubblicazione 24/05/2015

 


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FORZA MAGGIORE di Ruben Östlund, 2015

FORZA MAGGIORE di Ruben Östlund, 2015

Sembrerebbe inevitabile accostare il film del regista svedese Östlund con il suo connazionale Bergman, entrambi appunto svedesi, non foss’altro per il dramma familiare che ci viene proposto fatto di dialoghi apparentemente calmi, ma che invece nascondono intrinsecamente la crisi d’identità di un matrimonio, oramai alla deriva, e di ruoli maschili e femminili non più conformi alla realtà di un tempo.
Tomas, la moglie Ebba ed i loro due bambini si trovano in un residence sulla alpi francesi per trascorrere qualche giorno sulla neve e sciare in tranquillità.
I rapporti interpersonali all’interno del nucleo familiare vengono messi irrimediabilmente in crisi da una vera e propria valanga di neve che si abbatte su di loro mentre sono seduti al ristorante di un rifugio. Tomas di fronte al pericolo incombente, invece di preoccuparsi di proteggere la propria famiglia, assumendo il ruolo che le istituzioni e l’etica gli attribuiscono, fugge precipitosamente preoccupandosi di salvare il suo cellulare incurante delle grida atterrite dei figli di fronte a quell’evento naturale, improvviso e dirompente.
Scampati miracolosamente il pericolo, Ebba, resasi da subito conto dell’accaduto e rimasta accanto ai figli invece di fuggire via, da quel momento non potrà più fare a meno di rimproverare ripetutamente al marito, anche di fronte ad amici, quell’istinto egoistico di sopravvivenza che, per causa di forza maggiore appunto, gli ha fatto dapprima rimuovere e poi negare le sue vere responsabilità di padre e marito, facendo emergere una fragilità che lui stesso dichiara di detestare.
Grande è l’abilità del regista nel proporre quei paesaggi incantati di neve dove la famiglia si ritrova unita per sciare più come una routine a tratti noiosa, che per scelta: sembra piuttosto che ognuno di loro vorrebbe starsene per i fatti propri, compresi Vera e Harry che spesso non tollerano la presenza dei genitori, anelando forse ad un momento di serenità con un videogioco, che quelle convenzionali abitudini sciistiche sembrano impedire.
Di nuovo aleggia lo spirito di Bergman, fatto di grandi pause ed immagini a lungo campo, in cui tutti i personaggi si muovono con circospezione per paura di dire o fare qualcosa in contrapposizione ai ruoli imposti dalla società . Ma se la location tra le montagne incantate risulta un felice spunto per incorniciare tutta la storia, dove all’improvviso vola persino una astronave giocattolo di proprietà di Tomas, non sempre la lentezza del film ci ripaga. Non particolarmente esilarante è la prova dei due protagonisti Johannes Kuhnke e Lisa Loven Kongsli.

data di pubblicazione 18/05/2015


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SAMBA di Eric Toledano e Olivier Nakache, 2015

SAMBA di Eric Toledano e Olivier Nakache, 2015

Il senegalese Samba Cissè (Omar Sy) vive da dieci anni a Parigi presso uno zio e lavora con lui in un ristorante.

Privo di regolare permesso di soggiorno, viene internato insieme a tanti altri clandestini in un centro di accoglienza situato nei pressi della pista di atterraggio di un aeroporto come a significare, per tutti gli ospiti irregolari e in attesa di giudizio, che in qualsiasi momento lì potrebbe atterrare l’aereo che li riporterà in patria con il foglio di via. Samba dunque convive con la paura che un giorno quello potrebbe essere il suo destino; mentre è in attesa della sentenza che stabilirà se concedergli o meno di rimanere in Francia, viene assistito da una associazione umanitaria che segue gli immigrati nel lungo travaglio giuridico per evitare l’espulsione. Lì conosce Alice (una “leggera” Charlotte Gainsbourg), manager d’azienda in congedo lavorativo a causa di un forte esaurimento nervoso, che frequenta il centro inizialmente con scarsa convinzione e a solo scopo “terapeutico”: tra i due nasce una rispettosa attrazione.

Eric Toledano e Olivier Nakache, registi e sceneggiatori francesi di nuova generazione, a pochi anni dal grande successo di Quasi amici, ci propongono questa nuova commedia dal gusto agro-dolce, molto leggera ma con tocchi di profondo realismo, alternando continuamente il mondo altamente borghese in cui vive Alice e la dura condizione da immigrato clandestino di Samba. Tra gli altri interpreti emerge con grande sorpresa, in un ruolo “insolito”, l’attore Tahar Rahim (Il profeta, Il padre) nella parte di un algerino che si finge brasiliano e si fa chiamare Wilson allo scopo di essere accolto da tutti con maggior accondiscendenza. Il film propone ancora una volta, in una salsa non proprio originale, il tema della difficoltà d’inserimento degli immigrati nel nostro mondo occidentale globalizzato, che dovrebbe essere più accogliente e preparato di un tempo nei confronti di queste persone in cerca di una speranza di vita, ma che poi non lo è. Samba è una favola in bianco e nero, una sorta di “love story” post moderna da prendere così come è, senza grandi pretese, per non rimanerne delusi o con aspettative disattese da grande film. Buona la recitazione, buona l’ambientazione e ottime le musiche; e se tra le scene famose di Quasi amici c’è quella del ballo di Driss sulle note di Boogie Wonderland degli Earth Wind and Fire, in Samba c’è un siparietto di Tahar Rahim tipo “spot della Coca Cola” altrettanto cool e coinvolgente. Insomma, un film che tutto sommato si fa vedere e che ci lascia soddisfatti non ultimo per il finale che, come in tutte le favole che si rispettino, ha ovviamente un prevedibile lieto fine.

data di pubblicazione 26/04/2015


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