QUELLO CHE NON HO di Neri Marcorè, drammaturgia e regia di Giorgio Gallione

QUELLO CHE NON HO di Neri Marcorè, drammaturgia e regia di Giorgio Gallione

(Teatro Quirino – Roma, 28 Febbraio/5 marzo 2017)

“Parole e musiche dal passato, e ancora di attualità sconvolgente, per un futuro che va salvaguardato dalle nefandezze del presente.”

 

Correva l’anno 1995 quando Neri Marcorè comprò il quotidiano ove sperava di leggere le recensioni del concerto di De André cui aveva appena assistito. Con sua meraviglia non trovava ancora le opinioni della critica, bensì un inserto titolato “Scritti Corsari”: una raccolta di articoli e interviste di Pasolini dai toni aspri. Sul momento non lo reputò utile e l’accantonò; ma di recente lo riscoprì e con suo sommo stupore notò che era ancora attuale, nonostante il tempo passato. Le parole del poeta bolognese appaiono descrivere per molti aspetti la situazione contemporanea: cambiano gli interpreti ma la musica è sempre la stessa.

Lo stesso accade con le canzoni di De André; ed è sull’ordito musicale lasciato dal cantautore genovese che Neri Marcorè, chitarra in mano, sferruzza sulle corde come le fila su un telaio, realizzando una trama fitta e articolata, agganciandosi a temi scottanti attraverso le questioni toccate dalle sue canzoni: come “Khorakhanè”, che narra di una bambina soffocata in macchina per la negligenza dei genitori, da cui l’attore trae spunto per parlare di una vicenda analoga che coinvolge la popolazione sinti (e quindi il perdurante problema della xenofobia); “Ottocento”, in cui il mulinello del capitalismo risucchia una famiglia altoborghese, e che consente di ammonire sugli effetti del consumismo imperversante; “Dolcenera”, testo ove si realizza un parallelo tra una storia di un amore rinnegato e l’alluvione di Genova del 1970, acqua che rischia in futuro di coprire le terre emerse su cui viviamo a causa global warming,e che è sempre più inquinata, come risulta dalla vicenda relativa alle “isole di plastica” presenti negli Oceani, ovvero enormi ammassi di polimeri derivanti dai carichi persi in mare durante i tragitti transatlantici, di cui una è pari per dimensioni al suolo del Belpaese. Un’Italia che era stata paragonata, dallo stesso Pasolini a una donna avvenente a cui è attorcigliato un fetido serpente, e che pertanto la rende poco attraente.

Questi sono solo alcuni dei temi e canzoni che si intersecano nel teatro musicale, il meglio bisogna scoprirlo: come l’interrogazione parlamentare su Clarabella…

Un concept album teatrale venato di umorismo e una buona dose di satira sociale quello realizzato da Neri Marcorè e Giorgio Gallione, attraverso cui si focalizza l’attenzione su quanto sta accadendo al nostro paese e pianeta, senza mai scadere in una critica fine a se stessa, ma sottolineando ciò che ha reso migliore il nostro territorio: d’altronde, come viene detto durante lo spettacolo, la metà delle opere presenti ad una sezione del MOMA è di origine italiana (la maggior parte degli anni Sessanta); quel made in Italy che ci ha resi famosi in tutto il mondo e su cui dovremmo continuare a puntare.

Le luci dello spettacolo curate da Aldo Mantovani puntano invece su di un telo increspato che fa da sfondo al palco, il quale si tinge di rosso, verde e blu in base alla scena da realizzare; tonalità di colore che danno rispettivamente un effetto di fiamme, foresta e mare. Una scenografia essenziale ma che riesce a suscitare la sensazione di cambiare scenario a ogni canzone. Meno essenziale la colonna centrale, anch’essa ammantata dal telo, che viene utilizzata soltanto in un’occasione senza particolare rilevanza.

Uno spettacolo dal quale si è affatturati per la sua capacità di trattare temi impegnativi con leggerezza e delicatezza, e in cui si è accarezzati dalla voce soave e stentorea di Marcorè, che riesce a ricordare l’inimitabile De André, grazie inoltre al supporto di Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini: i loro squilli di chitarra e il suono frusciante delle dita sulle corde permettono di sopperire all’inevitabile mancanza di strumenti e il canto in falsetto conferisce coralità partecipativa al canto.

Una canzone che si sarebbe ascoltata volentieri nel finale, che si addiceva peraltro all’ultimo afflato di speranza lanciato dall’attore marchigiano, è “Viva l’Italia” di De Gregori: l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare; l’Italia che si dispera e che si innamora; l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste e l’Italia che resiste. A onta di quanto scriveva Pasolini (che le lucciole sono scomparse: come metafora del nichilismo politico), ci sono ancora stelle che brillano nell’oscurità, ma non sempre si vedono. Allora, secondo l’adagio di Haruki Murakami:“Quando tutto attorno è buio non c’è altro da fare che aspettare tranquilli che gli occhi si abituino all’oscurità”.

Nota a margine: per evitare di creare disinformazione, in uno spettacolo che invece si prefigge di informare, da rivedere la parte in cui si parla di condanna per omicidio colposo per reiterazione del reato, in relazione alla vicenda dei genitori sinti, i cui bambini sono deceduti in un rogo. La reiterazione del reato, in ossequio all’art. 274 c.p.p., è un’esigenza cautelare che consente l’arresto e non la condanna. Se si vuole porre l’accento su di una parte della magistratura politicizzata (fenomeno riconosciuto anche dagli stessi vertici degli organi giudiziari) sarebbe opportuno farlo con chiarezza. Un’imprecisione che non mina di certo lo spettacolo.

data di pubblicazione: 02/03/2017


Il nostro voto:

TIERGARTENSTRASSE 4 di Pietro Floridia, per la regia Daniele Muratore, con Barbara Giordano, Serena Ottardo e Marco Polizzi

TIERGARTENSTRASSE 4 di Pietro Floridia, per la regia Daniele Muratore, con Barbara Giordano, Serena Ottardo e Marco Polizzi

(Teatro Argot – Roma, 21/26 Febbraio 2017)

“Il fascino irresistibile di un girasole luminoso per liberare una disabile dai nazisti e dal loro incubo tenebroso.”

Un fascio di luce calda piove sulla voluta del contrabbasso presente sul palco, proiettando sulla parete nera dirimpetto allo strumento un’immagine somigliante a quella del sole. La stessa forma che assume la prima vocale del nome Ofelia, che si caratterizza per il suo suono tondo e prolungato; a differenza della “i”, acuta e sottile, come i raggi di luce che penetrano nel sottobosco tra le fronde degli alberi. Queste sono solo alcune delle immagini del variopinto affresco di sensazioni che la piccola Ofelia provava ogni volta che il padre pronunciava il suo nome.

Ma ora Ofelia è sola. Non c’è più nessuno in casa. A farle compagnia è rimasto solamente il suo pesce rosso e una carriola: attrezzo prezioso che le permette di coltivare la sua passione per i fiori. Gli stessi che sono disegnati e colorati sul suo vestito bianco.

Una bambina semplice, troppo semplice per un sistema come quello tedesco durante la seconda Guerra Mondiale. E suscettibile pertanto di rientrare nel programma T4, il cosiddetto ‘Olocausto minore’, che prevedeva l’eliminazione dei disabili, ritenute vite ‘indegne di essere vissute’. La valutazione delle condizioni della candida Ofelia spetta all’oscura Gertrud, infermiera nazista avvolta nel suo pastrano nero. Gertrud rimane colpita dall’innocenza della giovane e di conseguenza cercherà di evitare il suo internamento, che l’avrebbe condotta a morte certa. Prova pertanto a indicarle il modo in cui sfuggire al controllo della Gestapo. Ma nonostante i suoi tentativi, Ofelia non riuscirà a nascondere la sua natura.

L’internamento non le impedirà tuttavia di alimentare il suo amore per i fiori; passione che si rivelerà salvifica, dato che i suoi girasoli le permetteranno di uscire dall’istituto e saranno richiesti in tutta la Germania, soprattutto dalle classi agiate e ricche. Il successo sarà condiviso anche con Gertrud, che la ospiterà nella sua casa e otterrà inoltre una promozione.

La terra su cui piantare nuovi bulbi, così come la pazienza di Ofelia a fronte delle pressanti richieste, ha però un limite; ma ciò è incompatibile con la sconfinata avidità nazista, che non ammette rifiuti, e che pertanto riserverà alle due un tragico finale.

Emarginazione, disabilità, crudeltà, sono questi i temi che Pietro Floridia decide di toccare con questo testo; magnificamente interpretato da Barbara Giordano, la cui interpretazione del ruolo di Ofelia è decisamente credibile: un insieme di smorfie, denti digrignati, linguaggio sgrammaticato che mostrano il disagio di una disabile in un mondo che non le appartiene. Il suo trucco, i suoi vestiti e i suoi comportamenti sono in contrapposizione costante con il personaggio interpretato da Serena Ottardo, la cui voce argentina brilla durante le canzoni di Edith Piaf (qualche stonatura di troppo, invece, durante la recitazione). Non stona invece Marco Polizzi al contrabbasso: sempre presente sulla scena, accompagna delicatamente la narrazione, sfoderando dalla faretra l’archetto nei momenti topici e più drammatici.

La scelta di utilizzare le canzoni della cantante francese per sdrammatizzare le scene più crude appare tuttavia avulsa dal resto della narrazione e non sempre contribuisce a distendere il clima di tensione creato con i temi affrontati – che talvolta risultano esasperati.

Delle scene realizzate da Bruno Buonincontri, suggestiva è quella dell’incontro tra Ofelia e l’infermiera, in cui le due si parlano su di un piano sfalsato, enfatizzando l’incomunicabilità tra i diversi mondi e modi di pensare, e il momento in cui la piccola disabile racconta come il padre pronunciava il suo nome quando la chiamava di ritorno a casa.

Uno spettacolo che si prefigge di toccare temi importanti, ma che avrebbe potuto avere una resa migliore

Di certo colpevolizzare è facile, più difficile trovare soluzioni. Quanto bisogna essere grandi per prendersi tutte le colpe?”

data di pubblicazione:28/02/2017


Il nostro voto:

JACKIE Pablo Larraín, 2017

JACKIE Pablo Larraín, 2017

Una donna che non ha cercato la celebrità, ma è finita col diventarlo.

Ognuno di noi ha le sue debolezze, i suoi punti fragili, i suoi momenti buî. Ed è in questi ultimi che si misura il valore di un uomo: dal modo in cui reagisce al dolore, da come si rialza dopo esser caduto.

Jacqueline Kennedy ha ancora il vestito macchiato di sangue, quando le viene chiesto di decidere come saranno celebrati i funerali. Una scelta difficile e importante, che deve rendere onore a un uomo non perfetto, ma proprio per questo capace di migliorarsi.

Nonostante le ritrosie degli alti funzionari di Stato, modella il funerale su quello di un altro illustre presidente degli Stati Uniti d’America: Abraham Lincoln (assassinato anche lui durante il suo mandato); pretendendo, pertanto, che tutti i capi di stato marcino insieme fino al cimitero dove il corpo sarà seppellito.

“Jackie” volle fortemente che i funerali di J.F. Kennedy fossero un evento storico e irripetibile: e ci riuscì.

Il film rivela una first lady che, dietro un’apparente fragilità – con la sua voce dal tono basso e debole –, cela un temperamento ferreo e risoluto. Una donna capace di vincere tutte le resistenze, sia interne sia esterne, nel momento di massima sofferenza.

A Pablo Larraín va il merito di aver mostrato l’esecrabile episodio della morte di J.F. Kennedy da un punto di vista inedito, descrivendo l’enorme peso delle responsabilità che ricaddero sulla moglie (e che lei seppe gestire in modo sorprendente). La regia, tuttavia, appare alquanto anonima ed eccessivamente distaccata; non riesce ad affascinare; malgrado diverse componenti del film convincano: le musiche inquietanti si attagliano perfettamente alle scene e aumentano il dramma; la sceneggiatura è ricca di spunti che colpiscono; e le prove attoriali elevano la qualità della pellicola. Sotto quest’aspetto, è d’uopo menzionare la sublime interpretazione di Natalie Portman (Jacqueline Kennedy); il ruolo ricoperto le consente di mostrare le sue eccezionali doti di mimetismo di aggiudicarsi la coppa Volpi, per la migliore interpretazione femminile.

E se nella nostra società si distinguono due categorie di donne, quelle che cercano il potere nel mondo e coloro che lo cercano a letto, lei – come Jacqueline Kennedy – dimostra di appartenere alla prima categoria.

data di pubblicazione:22/02/2017


Scopri con un click il nostro voto:

NON C’È ACQUA PIÙ FRESCA di Giuseppe Battiston, con musiche originali e dal vivo di Piero Sidoti

NON C’È ACQUA PIÙ FRESCA di Giuseppe Battiston, con musiche originali e dal vivo di Piero Sidoti

(Teatro Vascello – Roma, 20 Febbraio 2017)

“L’allestimento dello spettacolo nella terra delle acque risorgive diventa occasione per un tripudio di sensazioni evocative.”

Un cielo nemboso, rischiarato qua e là dalla luce del sole, minaccia un prato verdeggiante sul quale si staglia un AMI 200, intramontabile jukebox degli anni Sessanta. Il paesaggio raffigurato nell’opuscolo consegnato all’ingresso si dispiega come il mantice di una fisarmonica, dando vita alla prima villotta, che trasporta immediatamente lo spettatore in Friuli-Venezia Giulia: il “paese di primule e tempeste”, come amava definirlo Pasolini.

Nella piazza principale di Casarsa, due attori sono intenti ad allestire il palco per lo spettacolo che dovranno mettere in scena. Durante i preparativi, i due ricordano il loro passato nel paese friulano, attraversato dalla linea delle risorgive, dove l’acqua è più fresca e, quando la stagione lo permette, si va al fiume Tagliamento per un bagno rigenerante. In questa atmosfera evocativa si materializzeranno man mano i personaggi che popolano questo scenario: da soldati abbandonati a operai sfruttati, da padri severi a ricchi austeri, da fanciulle desiderate a giovani disperati. E tutti prenderanno parte a questo surreale clima festoso, di sagra paesana, in cui si balla, si suona, si ride e si canta con un sottofondo di malinconia.

Il friulano Battiston porta in scena le poesie composte da Pasolini durante la sua infanzia passata in Friuli. Componimenti interamente scritti in dialetto: una lingua ricca di parole tronche – che risuonano taglienti come la falce mentre ara i campi – dal suono cadenzato e profondo, come il rumore del gorgoglio delle acque rivierasche. Nella sublime recitazione da parte dell’attore udinese, impreziosita dall’accompagnamento musicale di Piero Sidoti, il dialetto si mescola alla natura, diventando tutt’uno con essa.

In questo viaggio emozionale un ruolo fondamentale è assunto dalle luci (curate da Andrea Violato), che attraverso colori cangianti riescono a rievocare efficacemente i paesaggi friulani, esaltando così le diverse scene interpretate.

Uno spettacolo in cui sono presenti tutti gli ingredienti per il successo – sebbene appaia ancora alla ricerca delle giuste dosi. D’altronde, la fase iniziale della rappresentazione non riesce a calamitare l’attenzione del pubblico, perché indugia molto su particolari che successivamente si riveleranno non essenziali; e anche la scelta di quali parti delle poesie valorizzare può non apparire opportuna. Il finale rimane tuttavia coinvolgente e commovente; un crescendo di emozioni che culminano nei versi conclusivi, in cui riecheggia tremendamente la parola morte. Morte che – come scriveva il poeta – fa della vita quel che il montaggio fa del film: realizza un senso già implicito in ogni fotogramma precedente, che attendeva soltanto di essere sciolto nell’ultima scena.

“Oggi è domenica,
domani si muore,
oggi mi vesto
di seta e di amore.”

(Le litanie del bel ragazzo, dalla raccolta “Poesie a Casarsa”)

data di pubblicazione: 22/02/2017


Il nostro voto:

LE MUSE ORFANE di Michel Marc Bouchard, regia di Paolo Zuccari, con Antonella Attili, Stefania Micheli, Elodie Treccani e Paolo Zuccari

LE MUSE ORFANE di Michel Marc Bouchard, regia di Paolo Zuccari, con Antonella Attili, Stefania Micheli, Elodie Treccani e Paolo Zuccari

(Teatro Argot – Roma, 31 Gennaio/19 Febbraio 2017)

“Una lettera dal passato per un incontro presente. L’attesa fremente di quattro figli per un inaspettato arrivo imminente.”

È sabato santo. Il giorno dell’attesa per antonomasia, in cui si aspetta la resurrezione di Gesù.

Anche Luca, Caterina, Isabella e Martina aspettano un evento straordinario, che permetta loro di risorgere, di ricucire quella ferita aperta dalla madre vent’anni prima, dopo il suo tragico abbandono.

Da quel giorno Luca non smette di indossare i vestiti materni: unico resto di una madre scomparsa; ultimo legame con la donna che l’ha creato e che di sé non ha lasciato tracce, diventando impalpabile come un fantasma. Da anni non si occupa d’altro che del suo romanzo, di cui non è stata letta ancora una pagina: per questo è costantemente foraggiato da Caterina, la maggiore dei quattro figli.

Alacre insegnante, Caterina è insoddisfatta dalla sua vita perché non riesce ad avere un figlio. Un dolore profondo e continuo, che riesce a lenire soltanto allevando la dolce Isabella, la minore delle sorelle, sostituendosi così alla madre e coronando quel suo sogno impossibile.

Sotto la costante protezione di Caterina, Isabella è cresciuta lentamente, tant’è che non dimostra la sua età. Sembra avere un problema di apprendimento, di cogliere il senso delle nuove parole che le vengono dette (che prontamente annota sul suo taccuino). Non solo ha difficoltà ad afferrare i nuovi vocaboli, anche la realtà che la circonda sembra sfuggirle; come la verità sulla scomparsa della madre: creduta da lei morta invece che scappata, secondo quanto le avevano detto le sorelle.

Nonostante la sua sbadataggine, Isabella ha in serbo uno scherzo arguto per la sorella Martina, che oramai vive da anni in America. Donna inossidabile e fieramente omosessuale, la sua tempra d’acciaio l’ha condotta a intraprendere la carriera militare; ma dietro la sua armatura, si nasconde un animo fragile. È tornata in paese per i funerali di Luca – almeno questo è quanto le è stato fatto credere da Isabella.

Ma in realtà Isabella ha un piano più arguto di quanto ci si possa aspettare; e non esiterà a rivelarlo. Ha riunito tutte le sorelle e il fratello perché ha saputo la verità sulla madre, dal momento che ha ricevuto una sua lettera con cui comunicava il suo ritorno.

L’attesa dell’arrivo di Margherita diventerà un momento catartico per i suoi quattro figli, consentendo loro di ripercorrere le fasi dell’abbandono, in un fiume di ricordi che si susseguono come fotogrammi della pellicola di un film. E nella scena del tanto anelato ritorno, una rivelazione sconvolgente lascerà senza parole.

In questa sua opera, l’autore canadese porta lo spettatore a interrogarsi sul senso dell’abbandono: via di fuga vigliacca ed esecrabile o decisione ponderata e a fin di bene?

Per farlo sceglie l’abbandono più duro da digerire: quello materno. Una madre “che faceva sfoggio della sua felicità per nascondere la sua infelicità”, amando pubblicamente un altro uomo e per questo allontanata già nel suo stesso paese.

Un’incomprensione della società nei suoi confronti che si riverbera sui figli: Luca e Martina non riescono ad essere accettati per la loro omosessualità, e Isabella viene derisa per la sua ingenuità. L’unica figura della famiglia che cerca di integrarsi nella comunità è rappresentata da Caterina, ma ben presto sarà spazzata via anche lei dalla tempesta di critiche sociali.

Un quadro riassunto efficacemente dalle parole del regista:

«Sono stato costretto molto presto a prendere posizione nei confronti della società in cui vivevo e della sua mentalità ristretta, dove regnavano l’oppressione e il giudizio contro chiunque osasse affermare la propria diversità e le proprie ambizioni per una vita diversa da quella del clan.

Nelle Muse orfane, il personaggio della madre appartiene a questa tipologia di emarginati; al contrario di sua figlia Catherine, responsabile dei fratelli, che si aggrappa disperatamente ai valori del mondo antico per paura dell’ostracismo da parte della società in cui vive. In compenso, il risentimento e il senso di colpa che la animano, la rendono vittima del suo paese e tiranno della sua famiglia.

Io porto nel sangue le tracce di questa violenza, così cerco di essere sincero, di parlare solo di quello che ho visto, ascoltato, vissuto. Mi rendo conto che la mia scrittura vive una tensione costante tra i valori del vecchio e del nuovo mondo».

Canzoni d’antan, lacrime di dolore e inaspettate rivelazioni compongono il testo ideato da Michel Marc Bouchard, il quale dissemina durante la storia i pezzi del puzzle che ha costruito, e che lungo il cammino si ricompongono fino allo sconvolgente finale. Ed è proprio quest’ultima parte che Paolo Zuccari (regista nonché attore – con una formidabile prestazione – nei panni dell’eclettico Luca) non riesce a valorizzare nella messinscena: nel momento del colpo di scena, il pathos raggiunto finisce per dissolversi brevemente.

Degne di nota sono le interpretazioni delle tre attrici (Antonella Attili, Stefania Micheli ed Elodie Treccani): i loro sguardi dardeggianti infiammano il palcoscenico; la loro intesa sembra fraterna; i loro passi sono precisi nello spazio quadrato circoscritto dai mobili: sbarre della prigione ideale in cui sono rinchiusi i personaggi da loro interpretati. Seppur la scelta scenografica si riveli in più occasioni efficace, appare talvolta fin troppo essenziale.

Una storia di amore; una storia di abbandono. Si può abbandonare per amore?

Carlos Eleta Almarán usa queste parole nella sua “Historia de un amor”, non a caso la stessa canzone legata a Margherita Capuano:

Ya no estás a mi lado, corazón,                Non sei più accanto al mio cuore

en el alma sólo tengo soledad                  Nell’animo ho solo solitudine

y si ya no puedo verte,                             E se non poso più vederti

porque Dios me hizo quererte                 Perché Dio ha voluto che ti amassi

para hacerme sufrir más?                      Per farmi soffrire di più?

data di pubblicazione: 14/02/2017


Il nostro voto: