DONNA NON RIEDUCABILE di Stefano Massini, un progetto di e con Elena Arvigo

DONNA NON RIEDUCABILE di Stefano Massini, un progetto di e con Elena Arvigo

(Teatro Argot – Roma, 3/15 Maggio 2016)

Vivere per non morire o morire per poter vivere?

Anna Politkovskaja non aveva paura della morte; lei la sfidava ogni giorno. La giornalista russa aveva la presunzione di scrivere la verità e, in particolare, di raccontare le angherie e i soprusi subiti dalla popolazione cecena; per questo motivo, la morte pendeva sulla sua testa come una spada di Damocle, che inesorabile si è abbattuta su di lei mentre tornava nel suo appartamento, in una fredda sera dell’Ottobre del 2006. Ed è proprio attraverso la sua morte che i suoi racconti e la sua storia sono vissuti, e hanno avuto un’eco internazionale.

Elena Arvigo la racconta con una performance struggente; danzando sul palco del Teatro Argot con lo stipite di una porta, trasporta lo spettatore in tutti quei luoghi in cui la giornalista russa è vissuta, rendendo tutti testimoni di quanto accaduto.

 

Donna non rieducabile è il titolo del vostro spettacolo; la Vostra rappresentazione, invece, si prefigge di educare, sensibilizzare il pubblico. Qual è il messaggio che vuole lanciare?

Non c’è un messaggio segreto, mi piacerebbe offrire al pubblico il viaggio che ho percorso per realizzare lo spettacolo. Perché — prima di mettere in scena Donna non rieducabile — pensavo di conoscere Anna Politkovskaja e invece mi sono resa conto che sapevo poco: la mia informazione era superficiale. La sensazione di sapere tutto ciò che accade è sempre più frequente oggigiorno, perché siamo invasi di notizie di tutti i tipi, di tutti paesi — mentre una volta la gente non sapeva nulla (come ad esempio riguardo ai gulag). Noi pensiamo di essere onniscienti ma, in realtà, abbiamo solo una visione superficiale.

Il messaggio, quindi, è quello di “sospendere il giudizio” su ciò di cui non si è adeguatamente informati, invece di essere costretti ad avere delle opinioni, a prendere posizione.

Anna Politkovskaja, invece, era tacciata di essere faziosa, nonostante si limitasse a narrare i fatti cui assisteva senza schierarsi per i terroristi o per l’esercito. Prendere posizione, per Voi, è intelligente?

Questo è un aspetto interessante. A mio parere, “non prendere posizione” è intelligente. Ciò non vuol dire che non bisogna informarsi; però, se decidi di parlare, di esprimere delle opinioni (e, quindi, di avere influenza anche sugli altri), allora è necessario documentarsi. Perché altrimenti si crea molta confusione, si rischia di educare male i più giovani, si crea disinformazione (che può sfociare, ad esempio, nel razzismo). Al contrario, se uno non fosse interessato a capire, allora dovrebbe astenersi dal dare giudizi. Per questo motivo ho voluto associare allo spettacolo una serie di eventi, dibattiti e letture sul tema.

Un coinvolgimento, pertanto, a 360° del pubblico: sia durante lo spettacolo sia dopo. È questo il suo intento?

Sì, il mio intento è di incuriosire lo spettatore attraverso il racconto della storia di Anna Politkovskaja, condividere la sua esperienza senza appropriarmene. Perché la Politkovskaja non era un’eroina ma una donna comune, che faceva semplicemente il suo lavoro e rischiava la vita ogni giorno, come tanti altri giornalisti, tra cui c’era anche Giulio Regeni. Per questo motivo ci siamo associati ad Amnesty International, in modo da dare il nostro supporto per far luce sulla vicenda del giornalista triestino.

Sia della Politkovskaja che di Regeni hanno detto che se la sono andata a cercare…

Ma se la storia di questa gente massacrata, abusata non l’avessero raccontata loro, nessuno l’avrebbe fatto; quindi “non rimarrebbe la memoria” (tuttora i turchi negano il genocidio armeno).

La giornalista russa diceva che l’unico dovere di una giornalista è scrivere quello che vede. Qual è il dovere di un attore?

È quello di adempiere il proprio mestiere con coscienza e responsabilità, così non ci sarebbe bisogno di eroi.

Indipendentemente dal lavoro che uno svolge, se lo facesse con coscienza e responsabilità (e ci fosse più senso civico), non sarebbe necessaria la presenza di persone che salvino il nostro pianeta.

“L’eroismo quotidiano è quello che salva il mondo, quello che permette di rendere il posto in cui vivi migliore”.

data di pubblicazione:09/05/2016


Il nostro voto:

ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

(Teatro Eliseo – Roma, 26 Aprile/15 Maggio 2016)

Meglio liberi di scegliere la malvagità o costretti a condurre una vita integerrima?

È questo l’interrogativo che attanaglia Alex DeLarge, l’arcinoto leader dei Drughi (banda di teppisti dediti all’ultra-violenza). Di fronte alla scelta tra sperimentare una cura rieducativa o scontare 14 anni di prigione per essersi macchiato di omicidio, opterà per la prima che, in realtà, si rivelerà essere una forma di punizione alternativa con le sembianze del contrappasso: obtorto collo dovrà guardare immagini violente fino a che non gli susciteranno il disgusto; persino la musica di Beethoven, da lui amata, per riflesso pavloviano gli provocherà dei dolori lancinanti che lo dissuaderanno dal compiere le azioni più efferate.

L’adattamento teatrale del romanzo scritto dallo stesso Anthony Burgess è tuttora di stringente attualità: sia per la recente recrudescenza degli episodi di bullismo — ne è la dimostrazione il “knockout game” (aggressioni improvvise da parte di adolescenti a ignari passanti) — sia per il tema di sovraffollamento carceri e le costanti questioni relative alla funzione della pena — da un punto di vista morfologico e preventivo.

Nello spettacolo messo in scena da Gabriele Russo ogni ingranaggio si muove alla perfezione: scenografia, luci, costumi, attori e musiche s’intersecano dando la possibilità agli spettatori di godere una succulenta arancia meccanica.

A differenza delle polemiche suscitate oltremanica dal realismo esasperato — portato in scena al Royal Opera House da Katie Mitchell (che ha causato persino svenimenti tra il pubblico) — in questo caso le scene di sesso e violenza sono rese efficacemente attraverso il ricorso a suoni, movimenti a rallentatore e alla mimica facciale. Sotto questo punto di vista, esaltante è la scena in cui Alex afferma la sua leadership nei confronti dei compagni: si dimena e scuote il suo corpo al ritmo della musica classica che risuona nella sua mente e, sullo sfondo, Dim e Georgie si contorcono dal dolore per i colpi (virtuali) ricevuti: come se un direttore d’orchestra iniziasse a trafiggere con la sua bacchetta delle bambole voodoo. Non è peraltro l’unica scena significativa, lo scenografo Roberto Crea riesce a stupire in quasi tutte le situazioni e, in particolare, nell’ambientazione della scena in cui i Drughi fanno irruzione nella casa dello scrittore abusando della moglie. Per ricreare questa situazione, lo sceneggiatore campano offre allo spettatore una visuale dall’alto della casa, attraverso un tetto trasparente che permette di vedere ciò che sta accadendo nelle quattro mura; e, mentre la violenza si compie al rallentatore, la casa si muove lentamente verso la platea, e le luci all’interno della stessa cambiano passando da un candido bianco a un rosso sangue: un effetto stupefacente, come quello provocato dalle droghe utilizzate dai protagonisti.

A rendere l’atmosfera dell’opera ancor più sconvolgente è il sapiente utilizzo delle luci da parte di Salvatore Palladino: l’illuminazione stroboscopica e psichedelica esalta lo stato d’animo intermittente e cangiante dei tre dissoluti ragazzi. Tra i diversi tipi di luce adoperati, degno di nota è il ricorso a un fascio di luci rotanti, ottenuto sfruttando il riflesso di una barra luminosa orizzontale sospesa sul palco, che rende adeguatamente l’algida atmosfera del penitenziario in cui è rinchiuso Alex.

Se nei diversi ambienti in cui si svolge lo spettacolo prevale la luce fredda, domina invece il giallo per i costumi curati da Chiara Aversano. Il giallo è il colore che contraddistingue tutti i personaggi: è presente nelle scarpe dei Drughi (a suggellare il loro temperamento bilioso), ma è anche il vestito della Ministra e la maglietta dello psichiatra hanno la stessa tonalità — quasi a voler dimostrare che l’indole malvagia è insita in ognuno di noi. Per dare un taglio più moderno all’opera, inoltre, la costumista romana veste Alex e i suoi compagni con degli eleganti smoking, abbinando ai completi delle pellicce per rivelare i loro istinti animali.

Trascinante e sconvolgente (verrebbe da scrivere animalesca) è l’interpretazione di Alex da parte di Daniele Russo, coadiuvato dalle performance di Sebastiano Gavasso (Dim) e Alessio Piazza (Georgie), abili nel supportare il carismatico attore napoletano in un ruolo intenso e provante; non da meno le prove attoriali degli altri elementi del cast messo a punto dalla Fondazione Teatro di Napoli.

Non può mancare un riferimento alla colonna portante del film, che non a caso è quella sonora. Il ritornello incalzante “che succederà” della suite di Morgan accompagna la rappresentazione e contribuisce ad acuire lo stato di trepidazione dello spettatore rispetto agli eventi. Con il proseguire della messinscena, il mélange di suoni elettronici con quelli del pianoforte sbiadisce i confini tra musica classica e contemporanea, rendendoli sempre più labili come quelli di un insieme frattale. Allo stesso modo il confine tra malvagio e benevolo finisce per svanire: Alex da carnefice viene dalla stessa società strumentalizzato per soddisfare i biechi scopi politici. E allora emergono con ancor più vigore le parole di Fëdor Dostoevskij riguardo alla dicotomia tra bene e male:

“Non c’è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo”

data di pubblicazione: 28/04/2016


Il nostro voto:

ARANCIA MECCANICA di Anthony Burgess, regia Gabriele Russo, musiche Morgan

A PORTE CHIUSE di Jean-Paul Sartre, regia Michele Suozzo

(Teatro dei Conciatori – Roma, 19/24 Aprile 2016)

Pali, graticole, imbuti di cuoio per la tortura della goccia cinese, sono solo alcuni degli strumenti diabolici che ci si aspetterebbero di trovare nell’Ade. Ma nessuno di questi è presente nell’inferno riservato a Inès, Estelle e Garcin; la loro condanna consiste invece nell’essere rinchiusi in una stanza: invisibili agli occhi del mondo, ma sotto il costante sguardo giudicante degli altri due per l’eternità.

Il giudizio altrui: questo è il supplizio cui sono destinati i tre personaggi. Garcin (Luciano Roffi) è un brasiliano di un’eleganza irreprensibile, che durante il suo lavoro (direttore di un giornale) è stato freddato con dodici colpi di pistola; Inès (Fulvia de Thierry) è un’impiegata di un ufficio postale dai gusti omosessuali, rimasta coinvolta nell’esplosione di una palazzina dovuta a una fuga di gas; da ultimo, Estelle (Elisa Pagin) è una donna dell’alta società, deceduta per colpa di una polmonite. Benché in apparenza ai tre condannati non sembri potersi muovere alcun appunto per la loro vita terrena, i dialoghi e le reciproche domande sveleranno i loro misfatti. E allora si romperà il vaso di pandora contenente i diversi segreti di ognuno di loro e si scoprirà che il direttore del giornale è in realtà noto per la sua vigliaccheria: tradiva i colleghi e — ripetutamente — la moglie; Inès, invece, è un’abile manipolatrice che ha sedotto la moglie del cugino strappandola a quest’ultimo, il quale — per disperazione — si è ucciso; infine, la candida Estelle si rivelerà essere un’infanticida: ha ucciso il figlio avuto da una relazione fedifraga. Le loro azioni li perseguitano anche dopo la morte e, una volta rivelata la loro natura, saranno vincolati l’uno all’altro: Garcin desidera che Inès, la quale ha smascherato la sua indole vile, lo consideri invece coraggioso per le sue azioni; Inès, a sua volta, è innamorata di Estelle, ma lei non ricambia il suo amore; ed Estelle anela a essere amata da Garcin, il quale non la considera. I sentimenti, i pensieri e le impressioni degli altri sono le catene che li inchioderanno nella stanza — nonostante si accorgano che, in realtà, la porta per uscire sia aperta; ma la libertà che cercano non è fisica ma spirituale: è la libertà dagli altri.

La Chambre Magique propone una lettura armoniosa della celebre opera dell’autore francese, mercé la scelta di inserire le composizioni musicali di Leandro Piccioni (eseguite da Elena Centurione: violino; Lorenzo Massotti: viola; Alessandra Leardini: violoncello) durante la rappresentazione dell’opera; in guisa da permettere alla musica di mescolarsi alle parole, in un intreccio di dialoghi e note che esaltano le sofferenze, le paure e le ansie dei diversi personaggi.

Contribuiscono a esaltare la pièce le interpretazioni degli attori. La prova attoriale di Lucino Roffi è intensa e vigorosa; la sua voce è assolutamente peculiare, unica (la sua brillante carriera da doppiatore ne è la dimostrazione), e il suo timbro vocale poderoso si attaglia perfettamente al ruolo che ricopre. Così com’è perfetta la scelta di Elisa Pagin per il ruolo di Estelle: la sua venustà abbacinante cattura gli sguardi del pubblico, e la leggiadria con cui si muove sul palco rappresentano appieno l’animo civettuolo del personaggio che interpreta (a suo sfavore, tuttavia, vi è da dire che in alcuni casi affretta i tempi delle battute). Magistrale la performance di Fulvia de Thierry, capace di emozionare il pubblico.

Lo spettacolo è stato ripagato da un caloroso e duraturo applauso, che ha permesso agli attori di liberarsi dal desidero di apprezzamento e di successo: la stessa trappola in cui erano caduti i loro personaggi. Perché, per chi fa teatro, l’inferno può essere il pubblico.

data di pubblicazione: 25/04/2016


Il nostro voto:

GLI INNAMORATI di Carlo Goldoni, regia Andrée Ruth Shammah

GLI INNAMORATI di Carlo Goldoni, regia Andrée Ruth Shammah

(Teatro Vascello – Roma, 7/17 Aprile 2016)

Eugenia e Fulgenzio. Due pianeti diversi. Lui sanguigno e iracondo, rappresentante della ricca classe borghese. Lei passionale e volubile, appartenente alla nobiltà decaduta. Per via dei loro caratteri si ritrovano il più delle volte su posizioni divergenti e le loro superfici si scontrano provocando faville; ma quando si allineano, le scintille si tramutano in fuochi d’artificio e il magnetismo del loro amore dà vita a uno spettacolo meraviglioso. Su di loro, come dirà Flaminia (sorella di Eugenia), si potrebbe scrivere la commedia più bella del mondo.

Lo spettacolo è incentrato sulla relazione tormentata dei due giovani. Ostacolo alla loro felicità è l’orgoglio e la gelosia che l’uno prova nei confronti dell’altro. Eugenia, da un lato, pensa che Fulgenzio sia troppo servile con la cognata (affidatagli dal fratello mentre questi è altrove per affari); l’aitante giovane, dall’altro lato, è infastidito dalle attenzioni che il conte Roberto d’Otricoli — presentato a Eugenia dallo zio Fabrizio — riserva alla fanciulla. I due amanti, per gran parte dell’opera, si perdono in quisquilie e qui pro quo, ma infine,esausti dopo tutte le schermaglie, si lasciano andare e si riconciliano (“all’amore bisognerebbe abbandonarsi, ma è più facile a dirsi che a farsi!”).

Le prove attoriali sono energiche ed emozionanti: Marina Rocco danza delicatamente sul filo dell’equilibrio instabile della fragile Eugenia; Matteo De Blasio è elegante nella sua interpretazione di Fulgenzio; Roberto Laureri ed Elena Lietti sono estremamente abili nel cambiare in corso d’opera ruolo (il primo veste sia i panni di Tognino, servitore di Fulgenzio, sia delconte Roberto d’Otricoli; la seconda recita come Lisetta, cameriera in casa di Fabrizio, e come Clorinda,cognata di Fulgenzio); sembra cucita su misura la parte dello zio Fabrizioper Marco Balbi, che trasmette costantemente gioia durante la recitazione; Alberto Mancioppi interpreta con invidiabile aplomb la parte di Ridolfo, avvocato legato alla figura di Fabrizio, e di Goldoni; Silvia Giulia Mendola è impeccabile nel ruolo della saggia sorella Flaminia; Andrea Soffiantini, infine,è incredibilmente ilare nella parte del flemmatico “Succianespole”, vecchio servitore di Fabrizio.

Le scene e costumi sono scelti con cura da Gian Maurizio Fercioni, attento a ogni dettaglio: i personaggi, infatti, indossano paia di scarpe diverse, che simboleggiano le differenti personalità (divertente la scelta di un paio di geta — tipici sandali giapponesi — per lo stravagante zio Fabrizio).

La reinterpretazione in chiave moderna di Andrée Ruth Shammah del testo goldoniano è convincente e coinvolgente. L’opera del maestro veneto si dimostra adatta a tutte le stagioni, ma la regista milanese riesce a svilupparla in modo atipico, rendendola ancor più amena e spogliandola di tutti i manierismi che appesantiscono la narrazione, permettendo una commedia leggera, che vola via velocemente — come il tempo durante lo spettacolo. Leggiadria conferita anche dalla finzione dichiarata: gli attori interagiscono a più riprese con il pubblico, come se si stesse assistendo alle prove della messinscena. Spettatori che, alla fine della commedia, esplodono in una salva di applausi e complimenti: i veri innamorati sono loro.

data di pubblicazione: 11/04/2016


Il nostro voto:

BLUETOOTH di Gianni Clementi, regia Claudio Boccaccini

BLUETOOTH di Gianni Clementi, regia Claudio Boccaccini

(Teatro della Cometa – Roma, 7/10 Aprile 2016)

Dente blu; così era soprannominato Re Aroldo I di Norvegia, il quale attorno all’anno mille unificò i diversi popoli danesi.

Bluetooth, invece, è il termine utilizzato oggi per individuare il sistema che permette di unire differenti dispositivi elettronici.

Se da un lato la recente scoperta tecnologica consente di legare virtualmente tra loro più dispositivi, dall’altro finisce per spezzare il contatto umano diretto: con frequenza crescente, infatti, capita d’imbattersi in persone intente a comunicare attraverso gli auricolari, che — a prima vista — sembrano squilibrati colti nell’atto di parlare da soli.

Antesignano di questa bizzarra forma di comunicazione — ancorché lui non avesse alcun interlocutore — fu il pittoresco Don Chisciotte, che vagava e vaneggiava per le lande spagnole accompagnato dal fido Sancho Panza. Ed è proprio l’antieroe del libro di Miguel de Cervantes, impersonato da un poliedrico — e irresistibilmente divertente — Francesco Pannofino, che narrerà allo spettatore la fantasiosa storia della sua vita: da fedele servitore del nobile cavaliere a statua vivente di se stesso per le strade della città eterna.

Tra video proiezioni emozionanti (come quella a volo d’uccello sulla capitale), canzoni e poesie, il protagonista di questo racconto dolceamaro ci guiderà in un viaggio introspettivo, smorzato dall’irresistibile ironia dell’attore ligure. Un testo, quello di Gianni Clementi, breve ma efficace; dove è predominante la figura dell’antieroe moderno — incapace di comunicare poiché travolto dal profluvio di frasi derivanti dalla messaggistica istantanea —, posta in contrapposizione con gli eroi del passato (M.L. King, Moro, J.F. Kennedy), abili — al contrario — nel trasmettere in poche parole messaggi pregni di significato. Senza dimenticare, tuttavia, il monito brechtiano: “Sventurata è la terra bisognosa di eroi”. 

data di pubblicazione:09/04/2016


Il nostro voto: