NIENTE DA PERDERE di Delphine Deloget, 2024

Un bambino lasciato da solo in casa fino a tarda sera, in assenza della madre, barista in un locale notturno, decide di mettersi a friggere patate per fame improvvisa e finisce per ustionarsi. Dal ricovero in ospedale alla “presa in carico” da parte dei servizi sociali il passo è breve. A partire da quel preciso momento ha inizio l’incubo delle “sabbie mobili”. Sylvie tenterà in ogni modo di riprendere con sé il proprio figlio Sofiane, trasferito contro la sua stessa volontà in una casa- famiglia.

Opera prima della regista Delphine Deloget, che è anche sceneggiatrice della storia, sostenuto da ritmi vorticosi e dialoghi incalzanti, questo film dipinge un dramma familiare, e si spinge oltre. Lo lascia parlare, gli dà voce. E lo fa con un linguaggio diverso, trascinando chiunque vi si accosti in una vera e propria discesa agli Inferi. Là dove Orfeo perde per sempre la sua Euridice, per non aver resistito all’impulso di volerla rivedere. Dove è relegata la giovane Kore, strappata dalle braccia della madre da un’entità oscura, più grande e più forte. E dove le paure ataviche – separazione, perdita, abbandono – si materializzano come ombre nella caverna.

Allontanato dalla propria casa per avere garantita una “maggiore tutela”, Sofiane (interpretato dal piccolo Alexis Tonetti) vede il fratello Jean Jacques (Félix Lefebvre), e persino la propria madre, sempre più raramente. In contesti “protetti”. Per rimanere attaccato a lei, non può fare altro che annodarle i capelli, una ciocca dopo l’altra, con le dita sottili. E poi, scaduto il tempo della visita, aggrapparsi a quella treccia come fosse il cordone originario, che ancora li lega.

La donna, dal canto suo, lotta anche lei, con le poche risorse a sua disposizione. I due fratelli innanzitutto, fragili e sgangherati ma presenti e pronti a sostenerla. Alcuni amici fidati, solidali ciascuno a modo proprio. E i compagni di terapia, cui hanno ugualmente sottratto i figli. Fagocitati anch’essi dalla macchina giudiziaria, questi compaiono sulla scena seduti in cerchio, come in una sorta di rito iniziatico, e annunciano mostri: “Ricorda di passare la candeggina ovunque, prima che loro ti tornino dentro casa”.

In questo viaggio “dentro la notte”, lo spettatore si identifica con madre e figli, provando empatia. Vive con loro, partecipa della loro storia. Poiché non è solo “finzione”, questo film. È un pugno allo stomaco, un getto d’acqua fredda sparata sul viso, un tizzone che brucia, contro il petto, e che lascerà cicatrici. E proprio la cicatrice – tanto reale quanto metaforica – “tatuata” sul petto del bambino è il leitmotiv della storia. Motivo di sofferenza e al tempo stesso di orgoglio (“me l’ha fatta un drago!”), e di forza interiore.

Convincente la prova dei due giovani attori, fratelli indivisibili e complici, dall’inizio alla fine.

Notevole, al di sopra di ogni altra, l’interpretazione di Virginie Efira – Sylvie – di volta in volta imponente e sommessa, inarrestabile e meditativa. Con lo sguardo fermo e fisso all’orizzonte, lungo il cammino di feuilles mortes.

data di pubblicazione:23/05/2024


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1 commento

  1. Recensione intrigante che, attraverso sguardi fisici e psicologici, attira il potenziale spettatore a vedere questo film che narra di un dramma familiare in cui si possono rispecchiare le nostre paure.

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