HENRI CARTIER-BRESSON

(Museo dell’Ara Pacis – Roma, 26 settembre 2014 / 25 gennaio 2015)

Henri Cartier-Bresson (1908-2004) ha immortalato attraverso l’obiettivo della sua macchina alcuni degli snodi più significativi del secolo scorso, cesellando al tempo stesso quegli scatti senza tempo che nell’immaginario comune identificano ormai la Fotografia per antonomasia.

La poesia e il gusto per la composizione dell’immagine da una parte, l’impegno politico e la testimonianza dall’altra. Henri Cartier-Bresson è Uno, Nessuno e Centomila nell’esposizione allestita a Roma presso il Museo dell’Ara Pacis, che celebra il genio eclettico del suo “occhio assoluto”, divenuto in breve tempo “occhio del secolo”.

È affascinato dalla rassicurante infallibilità della matematica e della sezione aurea, ma anche fatalmente attratto dalla deformazione surrealista dei corpi e dello spazio. È l’artista che lascia la macchina in paziente attesa che “succeda qualcosa” davanti al suo occhio e che cattura poi “l’istante decisivo” come un cacciatore fa la con la sua preda, ma è anche il fotografo a servizio della stampa comunista e tra i fondatori della Magnum Photos, l’agenzia che inaugura un nuovo modo di fare e di intendere il reportage.

Durante il percorso disegnato dalla mostra, la fotografia assume progressivamente la consistenza del “documentario”, mostrando una vocazione sempre più chiaramente ed esplicitamente politico-sociale. Dietro lo scatto minuziosamente composto che, rievocando le atmosfere di alcuni dipinti di Renoir, ritrae un momento di svago in riva alla Senna si cela il traguardo delle prime ferie retribuite ottenute dai lavoratori francesi, così come dietro i volti sorridenti del gioco a premi “Il mistero del bambino scomparso” si nasconde la celebrativa simbologia salvifica del comunismo. Nessuna “interpretazione” è per contro necessaria a fronte della vibrante sequenza del processo popolare allestito nei confronti di una collaborazionista nazista o davanti al pianto dirotto di una donna accartocciata sulle macerie di Dessau.

L’occhio dello spettatore è catapultato in un vorticoso viaggio attorno (e nel) mondo: l’Africa delle colonie, la Cina della cartamoneta che si svaluta vertiginosamente, la Cuba di Fidel Castro e dei conturbanti corpi femminili, l’India dei funerali di Gandhi, la Russia in cui troneggia ancora per molto tempo la gigantografia di Stalin.

Il tutto intervallato dagli stracci che alludono al mistero dell’erotico velato, dalle donne in nero che nelle stradine di Scanno volteggiano come note su uno spartito, da quei celeberrimi scatti del 1932, “Dietro la stazione Saint-Lazare” e “Hyères”, che condensano mirabilmente la perfezione di un’arte al cospetto della quale è inevitabile l’estatica contemplazione.

Per me la fotografia non è un lavoro, ma piuttosto un duro piacere; non cercare niente, aspettare la sorpresa, essere una lastra sensibile.

Il momento dello scatto si colloca a metà strada tra il gioco del borsaiolo e del funambolo. Un gioco perpetuo, accompagnato da una tensione estrema.

L’uomo. L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. […] Io mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta.


data di pubblicazione 29 /12/2014

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Ricerca per Autore:



Share This