QUEER di Luca Guadagnino, 2025

(Locandina tratta da cartella stampa)

Tratto dal libro di William S. Burroughs Queer è stato presentato in concorso nell’ultima edizione del Festival di Venezia. Adattamento del romanzo omonimo racconta di una permanenza a Città del Messico e di un successivo viaggio in Sud America nei primi anni ‘50, attraversati da un’ossessione sessuale che trasforma la vita di un uomo di nome Lee.

 L’americano William Lee vaga da un bar all’altro alla ricerca di uomini da portarsi a letto, con contemporaneo e abbondante uso di droghe e alcool. Lee è alla continua e spasmodica ricerca di qualcosa che si concretizza in continui rapporti occasionali, fin quando incontra per strada Eugene, giovane e bello, forse gay, forse no. Da lì iniziano a frequentarsi, una relazione/non relazione che li porterà anche in Sud America.

L’andamento di Lee è un continuo girovagare per i bar di Città del Messico, con una continua e disarmante ossessione sessuale. Questo viaggio disperato, ma allo stesso tempo vitale, avviene in una capitale che è stata ricreata a Cinecittà con sapiente coerenza, realizzando un’opera nell’opera.

Il film può sembrare a tratti sconcertante, soprattutto per le dipendenze e i tormenti che la condizione comporta, ma Daniel Craig, vero e proprio traino dell’intera opera, è a suo agio, nelle movenze, nella voce, nell’essere sempre sul filo tra irruenza e delicatezza. Alcune canzoni utilizzate – ci sono due cover dei Nirvana, per esempio – come colonna sonora delle scene rispecchiano totalmente il mood dell’opera.

Nel complesso, anche ricordando le sue precedenti opere, la cinematografia di Guadagnino offre una visione complessa e sofisticata del mondo queer, esplorando anche temi di identità, trasformazione e scoperta di sé. Ma ciò che può disturbare è un andamento che a tratti può far sorgere il dubbio allo spettatore, del tipo: ‘ma dove vuole andare a parare effettivamente?’, soprattutto nelle scene contorte e al limite del metafisico/onirico ambientate in mezzo alle foreste sudamericane.

In sostanza, l’opera non sempre riesce a scavare fino in fondo, nonostante il grande lavoro produttivo nell’utilizzo delle scenografie, citato sopra, perché affiorano zone d’ombra – la già citata parte nel folto della foresta appare poco a fuoco – e qualche scelta risulta forzata e non essenziale.

data di pubblicazione:16/04/2025


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1 commento

  1. In questo film Guadagnino ha raggiunto una piena maturità espressiva. Non è compito leggero trasporre il pensiero di Burroughs sullo schermo. Lo aveva già fatto Cronenberg con “Il pasto nudo”, ma con modalità diverse. L’aspetto allucinogeno/onirico è il punto essenziale per comprendere quella corrente di pensiero dominante nella cultura beat degli anni cinquanta. Vari i rimandi al Lynch di un tempo soprattutto nelle ultime scene quando il cerchio si ricompone per approdare nell’infinito cosmico rappresentato dal serpente. Un film eccezionale, il migliore del regista…

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