da Maria Letizia Panerai | Ott 6, 2009
(Festival di Roma 2009- in Concorso)
The last station è un film drammatico e sentimentale sui conflitti dell’amore: quello appena iniziato tra i giovani Valentin e Masha e quello che si appresta a finire tra la contessa Sofja e Lev Tolstoj, scrittore tra i più grandi della letteratura russa. Ne nasce una storia articolata e complessa, ricca ed emozionante, sulle difficoltà di vivere l’amore a tutti i livelli, esistenziali e culturali, ma soprattutto sull’impossibilità di esistere senza di esso. Tolstoj è sul finire della vita e, dopo 48 anni di matrimonio con Sofja si appresta a firmare un testamento segreto, decidendo di rinunciare alla famiglia, al suo titolo nobiliare e alle proprietà, per vivere in povertà e castità sotto gli occhi del giovane assistente Valentin e tra lo sgomento della consorte. Sofja, donna appassionata e di forte temperamento, grazie ad affannose quanto “rumorose” indagini, scopre che un discepolo del romanziere è tra i responsabili di questo programma così dannoso per lei ed i suoi figli. Il film ha una sceneggiatura ed una fotografia impeccabili ed i coniugi Tolstoj, Helen Mirren (Oscar per The Queen e premiata per questo ruolo al Festival Internazionale del film di Roma 2009) e Christofer Plummer, sono leggendari; tra gli altri interpreti si segnalano i molto convincenti Paul Giamatti e James McAvoy.
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da Maria Letizia Panerai | Ott 6, 2009
(Festival di Roma, 2009- Fuori Concorso)
Teatro Bolshoi di Mosca: nel buio della sala, durante le prove di un concerto, un inserviente si ferma ad ascoltare ad occhi chiusi la musica e, senza essere visto, non può fare a meno di fingere di dirigere gli orchestrali. Quell’uomo non è altri che il grande direttore d’orchestra Andrei Filipov che nella ex Unione Sovietica di Breznev, durante l’esecuzione di un concerto, rimase vittima con i suoi musicisti di un’epurazione politica. Assunto molti anni dopo al Bolshoi come uomo delle pulizie, una sera, mentre si accinge a spolverare la scrivania del Direttore artistico, apprende che il Theatre du Chatelet di Parigi vuole invitare l’orchestra sovietica a suonare per loro: e dunque, perché non sostituirsi assieme ai suoi vecchi orchestrali alla vera orchestra del Bolshoi? Parigi potrebbe diventare in questo modo la degna cornice di quel loro concerto per violino ed orchestra, così traumaticamente interrotto anni prima. Le concert, del regista rumeno Radu Mihaileanu, presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma tra gli applausi di una platea profondamente commossa dalla ricchezza di sentimenti ed emozioni che la pellicola riesce a trasmettere, cattura lo spettatore con umorismo ed ironia: attraverso la metafora, ci fa regalo dell’idea di quanto sia difficile il raggiungimento dell’equilibrio tra individuo e collettività, soprattutto in presenza di diverse etnie, allo stesso modo di come è per il grande Andrei Filipov riuscire a far arrivare alla suprema armonia il violino ed l’orchestra nel concerto di Cajkovskij. Come in Train de vie, infatti, i protagonisti della storia sono un gruppo di ebrei di diverse etnie in fuga, costretti dalle circostanze a praticare l’imbroglio a fin di bene fingendo di essere quello che non sono; quando “la falsa orchestra” approda a Parigi, per lo spettatore è evidente quante e quali difficoltà nascono dal divario tra la cultura slava e quella francese: soltanto la musica, se ben eseguita, potrà fare da collante tra realtà così diverse, realizzando l’utopico sogno dell’armonia suprema inseguito da Andrei.
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da Maria Letizia Panerai | Set 18, 2009
(Festival di Berlino 2009 – Orso d’Argento)
Ahmad, che vive in Germania da anni, decide di tornare in Iran per un breve soggiorno. I suoi vecchi compagni di Università, un gruppo di trentenni borghesi sposati e con figli, decidono di festeggiarlo organizzando una vacanza di tre giorni sulle rive del Mar Caspio. All’insaputa di tutti, Sephideh invita Elly, la maestra di scuola di sua figlia. Questa occasione, artatamente creata, si palesa ben presto agli occhi dei presenti: conoscendo l’infelicità di Ahmad dopo il recente divorzio dalla moglie tedesca, Elly potrebbe essere la donna giusta al suo fianco. Tutti si mostrano subito gentili con lei, dedicandole mille attenzioni e lodandone platealmente le qualità. Ma un incidente in mare ed l’improvvisa sparizione della giovane maestra, fanno deviare la storia verso un contesto inaspettatamente noir, portando in superficie bugie e realtà nascoste. About Elly è un film d’autore sul potere delle tradizioni, sulle dinamiche di gruppo e sulla posizione della donna in Iran, del giovane regista iraniano Asghar Fahradi, vincitore con questa pellicola dell’Orso d’Argento al 59° Festival di Berlino ed al Tribeca Film Festival. Attori bravissimi. Dialoghi molto curati.
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da Maria Letizia Panerai | Set 18, 2009
Quentin Tarantino in Inglorious Basterds ci racconta la sua fanta-storia (come lui stesso l’ha definita) secondo la quale, durante l’assedio dei tedeschi in Francia nel ‘44, un gruppo di soldati americani ebrei, capitanati da Aldo Raine (Brad Pitt), vengono paracadutati nella Francia occupata dalle truppe tedesche, allo scopo di uccidere, anzi massacrare, il più alto numero di nazisti. In questa loro impresa-missione saranno aiutati, solo casualmente, da una giovane ebrea sfuggita al massacro della sua famiglia ad opera del colonnello nazista Hans Landa (Christoph Waltz).
La storia-non Storia raccontata nel film, è ovviamente una rilettura-invenzione partorita dalla mente vivace e geniale del regista, che, al pari della trilogia di Kill Bill, ce la porge come una favola preceduta dal c’era una volta e divisa in capitoli; ma questa contestualizzazione durante il secondo conflitto mondiale, seppur fantasiosa, ci lascia basiti e le scene forzate di sangue a cui ci aveva abituati anche in passato qui non ci sembrano “pomodoro”. Infatti, pur sapendo che la Storia è stata tutt’altra cosa, quella raccontata da Tarantino ci tiene in tensione come se, speranzosi, dovessimo scoprirne un inaspettato altro epilogo che, peraltro, non tarda ad arrivare allorquando, il terzo Reich al completo, verrà riunito in una sala cinematografica di Parigi per assistere ad una proiezione auto-celebrativa di una pellicola di propaganda nazista: sarà in quella sala che Tarantino rileggerà la Storia a modo suo. Film da non perdere.
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da Maria Letizia Panerai | Set 18, 2009
Bright Star è il titolo di un poema d’amore che Jhon Keats, poeta inglese morto a soli 25 anni, scrisse per Fanny Brawne: Jane Campion ha tradotto la suggestione evocata da tanta poesia in meravigliose immagini. Siamo nel 1818, in un quartiere a nord di Londra, che all’epoca era aperta campagna con dimore in stile georgiano, boschi e giardini, alberi da frutto, distese di lavanda e giacinti selvatici: è in questa cornice, che somiglia ad un quadro di Monet, che ha inizio la frequentazione tra John Keats (un meraviglioso Ben Whishaw) e la sua vicina di casa, la studentessa di moda Fanny Brawne (Abbie Cornish), da cui ne nasce una relazione breve amorosa, molto ostacolata, che suggella un legame intensissimo ed indissolubile tra i due giovani. Tuttavia John, dietro insistente consiglio degli amici, decide di lasciare Londra per recarsi in Italia, nel disperato tentativo che condizioni climatiche più favorevoli possano aiutarlo a superare la tubercolosi da cui è affetto. Questa breve storia d’amore, tragica e tenera al tempo stesso, un misto di dolore e bellezza, rappresenterà tuttavia un momento particolarmente stimolante di creatività nella produzione poetica di Keats, e Jane Campion ha deciso di raccontarci la magnificenza talentuosa di questo giovane poeta, attraverso gli occhi e le emozioni di Fanny: scopriamo così le poesie nate in quel “fulgido”periodo di frequentazione, le lettere, intense e struggenti, fonti preziose da cui la regista ha attinto, nell’intento di rimanere fermamente fedele allo spirito di questi due esseri straordinari. L’epitaffio scolpito sulla lapide di Keats, sepolto nel cimitero acattolico del quartiere Testaccio, recita così: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”.
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da Maria Letizia Panerai | Set 29, 2008
Jonathan Demme con questo film ha diretto una storia di donne coraggiose e forti, riprendendole con l’occhio di chi, con spontaneità e naturalezza, riesce a trasporre tutto il loro bagaglio interiore, fatto di dolori ma anche di tanto amore. Ne è nato un film profondo e commovente dal titolo Rachel sta per sposarsi, in cui assistiamo alle dinamiche di un nucleo familiare distrutto da alcuni eventi della vita e che si ricompone in occasione delle nozze della giovane Rachel. I preparativi e poi le nozze, consumati durante un intero week end in cui parenti ed amici si incontrano e convivono, fanno riemergere vecchi rancori, paure, rimorsi, tensioni nate da cose non dette e soprattutto lo spettro di un lutto mai elaborato da parte di tutti i componenti della famiglia: ognuno cerca di soffocare questo dolore che li accomuna, tentando di ritrovare dopo tanto tempo un pò di armonia in occasione di questo lieto evento; fa eccezione Kym, fragile e problematica sorella della sposa, ex tossicodipendente e piena di rabbia nei confronti dei suoi familiari, decisa a “riprendersi” a suo modo l’affetto di tutti. Buone le prove da attrici di Anne Hathaway e Rosemarie DeWitt; superba Debra Winger.
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da Maria Letizia Panerai | Set 29, 2008
Jon (Philip Seymour Hoffman) e Wendy (Laura Linney) Savage sono due fratelli adulti che vivono separatamente le loro vite, insoddisfatte sul piano affettivo-familiare e malamente realizzate su quello lavorativo. Lui, appassionato e specialista di teatro brechtiano, si accontenta di insegnare drammaturgia presso l’Università di Buffalo e di convivere con una donna, di nazionalità polacca, che dice di amare ma che vigliaccamente preferirà far tornare al suo paese piuttosto che impalmare; lei, trentanovenne, ha un impiego temporaneo a New York e conduce una vita frustrata dal perenne sogno di diventare autrice teatrale, scrive commedie autobiografiche che nessuno vuole pubblicare, e si consola vivendo una relazione, fatta di incontri fugaci e senza futuro, con il suo vicino di casa. Jon e Wendy hanno un padre, Lenny (Philip Bosco), che vive tranquillo e solo in Arizona, lontano da entrambi, distratto da se stesso e non amorevole, presente nei ricordi adolescenziali dei due fratelli come un genitore severo e dispotico, che un bel giorno comincia a manifestare segni di demenza senile, malattia che obbligherà i figli a prendersi cura di lui, dopo averlo fatto ricoverare a Buffalo in un centro di assistenza per anziani. Per assicurare la loro vicinanza al padre, i fratelli decidono di vivere insieme a casa di Jon: ma la convivenza coatta tra i due farà riemergere in entrambi alcune fragilità, vecchi rancori e amarezze, oltre a sensi di colpa accompagnati da generose manciate di tristezza.
In questo film, targato U.S.A., inusuale e delicato, si parla con realismo ed ironia della profonda umanità di cui sono intrisi i personaggi di Jon e Wendy, grazie anche ad interpreti degni di nota, provati sì dalla vita, ma che nonostante tutto riescono a dare all’anziano genitore quello che possono in attenzioni sgangherate, affetto e sostentamento, ed indubbiamente più di quanto lui non abbia mai dato loro, con un finale per il spettatore tutto da scoprire.
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da Maria Letizia Panerai | Set 29, 2008
(Festival di Roma, 2007)
Ho letto da qualche parte che nella vita non è importante essere forti, quanto piuttosto sentirsi forti. Tratto dall’omonimo bestseller di Jon Krakauer, lo splendido film di Sean Penn racconta il “necessario” percorso interiore di un giovane ventiduenne, Christopher McCandless che, decidendo di dare ascolto alla propria voce di dentro, sarà portato senza alcun rimorso ad abbandonare tutto, gli affetti gli amici e la propria vita, per spingersi sino all’essenza di sé. Attraverso un reale avventuroso viaggio nella natura selvaggia, che porterà Christopher McCandless (Emile Hirsch) a spingersi sino in Alaska, egli percorrerà un metaforico viaggio nei meandri della propria giovane esistenza. Il protagonista voluto da Penn non è un eroe, anzi, ci viene dipinto in tutto il suo egoismo giovanile, in tutta la sua forza egocentrica, ed il regista sembra puntare volutamente il dito sulle sue scelte estreme, che spesso irritano lo spettatore. Splendida la colonna sonora, scelta ad arte anche per i testi. Mirabili le interpretazioni di William Hurt e M. Gay Harden, nel ruolo dei genitori di Chris: tipica coppia della middle-class americana, che obbligatoriamente e forzatamente dovranno ripensare, per il resto dei loro giorni, i principi e le ottuse convinzioni su cui avevano basato le loro esistenze borghesi.
Quando una volta in Alaska, al culmine del suo viaggio-percorso edipico, Chris tenterà di oltrepassare il fiume che lo separa dalla terra ferma e le acque in piena glielo impediranno – come a significare che certe scelte prive di mediazione e dialogo, una volta intraprese, divengono irreversibili – , egli non potrà fare altro che annotare sul suo diario di viaggiatore che la felicità è reale solo se condivisa.
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da Maria Letizia Panerai | Set 18, 2008
Gran Torino, l’ultimo film di Clint Eastwood, è un’autentica magia! E non solo perché tecnicamente perfetto, ma anche per i tempi piacevolmente lenti con cui ci viene raccontata una storia che potremmo definire un vero e proprio testamento artistico e professionale che, le generose mani del suo regista nonché magnifico interprete, offrono allo spettatore.
Il grande vecchio Clint ha colpito ancora, consegnandoci un’opera sobria, profonda, di gran classe proprio come la Ford Gran Torino del 1972 mai guidata dal suo protagonista, ma tenuta sempre in garage con quell’antico rispetto che solo le persone d’altri tempi sentono per le cose.
Il regista, vestendo i panni del suo personaggio, usa quella rudezza che ha sovente caratterizzato molte altre sue interpretazioni del passato e riesce così, in maniera geniale, a parlarci contemporaneamente di temi importanti: dell’anima multietnica dell’America e del razzismo che l’accompagna, della diffidenza con cui spesso si guarda al diverso e della scoperta che la diversità è invece un valore, perché puoi trovare più familiarità in un estraneo che in un consanguineo, scoprendo magiche similitudini.
E’ un linguaggio maschio e rude quello di Clint, ma non per questo meno incline al sentimento, alla melanconica tenerezza: il suo eroe di origini polacche Walt Kowalski, ci conquista e ci incanta, come un saggio che conosce bene la vita e si può permettere di combattere a viso aperto la morte. Convinto assertore di un radicato spirito americano patriottico e tradizionalista, nonché veterano della guerra di Corea, Kowalski ringhia contro tutti come un cane rabbioso perché tutti lo irritano, dai familiari ai vicini di casa, nella squallida periferia di Detroit. Intriso di astio e pregiudizi non solo razziali ma anche generazionali, incattivito da un volontario isolamento perché schivo e con un carattere difficile, Walt ha però in sé la magia delle grandi persone che sanno redimersi, che sanno pentirsi di cose che non avevano mai osato confessare, che nonostante le rughe si concedono ancora il lusso di stupirsi e di imparare, che sanno capire quando arriva il tempo di essere generosi per dare un senso alla propria di vita, intenerendoci con i suoi ruvidi ed inossidabili ideali, con quei suoi modi antichi ma profondamente umani attraverso i quali filtra il mondo che lo circonda.
E’ infatti la semplicità, l’ingrediente con cui Clint Eastwood fa del suo film un autentico capolavoro, consegnandoci con la civetteria di navigato artista, il testamento di un uomo che strizza l’occhio alla morte, in modo superstizioso oltre che geniale, nella scena finale del film, lasciandoci una ultima splendida prova da attore e la promessa di una ancora longeva carriera da regista.
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da Alessandro Pesce | Set 12, 2003
E’ la storia di Theo e Isabelle, gemelli , con relativo legame sconvolgente ed unico. Essi vivono di immaginario cinematografico, quando non sono in cineteca a gustarsi Samuel Fuller o Fred Astaire, Godard o Greta Garbo, Freaks o Mouchette, vivono chiusi in casa fingendo sempre come in un film, o replicando le finzioni viste sullo schermo; e la finzione diventa vita in tutte le sue manifestazioni , sesso e morte compresi. Incontrano Matthew, studente americano e sentendolo affine lo fanno partecipe della loro “rappresentazione” . E’ soltanto un aborto di vita, però, questo rapporto, perché i due gemelli (e viene il sospetto che potrebbe trattarsi di una sola persona con due identità sessuali) sono troppo ancorati al loro mondo interiore. Finché un giorno la Storia, quella vera, li scuote arrivando con un sasso dalla finestra di casa, impedendo la morte di Isabelle ma proiettandoli nella realtà. E’ l’infanzia perduta, o soltanto la continuazione della finzione?
Questa è anche la storia di una rivoluzione mai cresciuta, di un’ illusione rimasta tale, che tuttavia ha segnato definitivamente la vita di noi tutti perché da allora nulla è stato mai più uguale, nel bene e nel male e forse le vere rivoluzioni sono queste, le metamorfosi del pensiero e del modo di vivere. E l’entusiasmo dei ragazzi evocato nel film è un fermento, una speranza che, a detta dell’autore, mancherebbe alle nuove generazioni.
Trattandosi di illusioni infine questa NON PUÒ NON essere pure la storia dell’illusione cinematografica: The Dreamers, intitola Bertolucci, quasi accreditando l’antico luogo comune cinema = sogno ma nel film ricorda altresì la frase dei Cahiers di cinema secondo cui il regista è voyeur che spia dal buco della serratura, come lui stavolta, appunto, spia tre sognatori del 68.
Tutto senza rimpianti, naturalmente come nel pezzo di Edith Piaf che sottolinea il finale (è la seconda volta in pochi giorni, dopo il film dei Cohen, che si ascolta “non je ne regrette rien” al cinema !!)….Non mi meraviglia che questo mare di cinema su cinema e cinema nel cinema che è The dreamers abbia affascinato un critico come Ghezzi. Secondo me, invece, mi spiace, è il solito Bertolucci degli ultimi anni, splendido in alcune sequenze (quella iniziale alla Cinemathèque per esempio) ma irritante in altre, spesso ingenuo, ambiguo anziché no, sfilacciato, meno asciutto che nel suo penultimo film L’Assedio, e ancora lontano anni luce dall’autore di Partner o di Strategia del ragno, e anche dallo stra-citato Ultimo tango : ma quello è stato un suo periodo aureo che come il 68 non tornerà mai più.
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