da Giulio Luciani | Set 18, 2013
(Festival di Cannes 2013 – In concorso)
Il regista del pluripremiato Cous Cous (2007) sceglie nuovamente un taglio realista per mettere in scena la più bella storia d’amore femminile finora vista sul grande schermo. La Vita di Adele, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2013, è il racconto del passaggio dall’adolescenza all’età adulta nella vita di una ragazza irrequieta e amante della lettura, interpretata dall’intensa Adèle Exarchopoulos. Questo passaggio è segnato per sempre dall’incontro con Emma (la formidabile Lea Seydoux), dotata di sensualità androgina e capelli tinti dello stesso turchese degli occhi.
Tra le due ragazze, l’una timida e acerba, l’altra un contrasto vivente di forza e delicatezza, scatta un colpo di fulmine che diventerà un intreccio d’amore destinato a lasciare il segno nella storia del cinema. Dai primi incontri, fatti di sguardi e sorrisi curiosi, ai dialoghi sempre più magnetici tra le due che sfociano presto in splendidi amplessi, l’intera relazione viene rappresentata sullo schermo senza imbarazzo e senza censure, attraverso una sceneggiatura preziosa in grado di descrivere passo dopo passo l’evoluzione delle ragazze.
La verità del personaggio di Adele è disarmante, perché si assiste a scene in cui la recitazione è evidentemente improvvisata. Riuscire a tenere accesa nello spettatore per l’intera durata del film, a dir la verità un po’ lungo, sempre una certa tensione ed emozione, era un’impresa tutt’altro che facile.
Il pregio della pellicola, motivo per cui trovo sia un’opera meravigliosa, sta tutto nella sua capacità di inquadrare la vita di Adele talmente da vicino da farci sentire che odore e che sapore potrebbero avere la sua pelle, le sua labbra e gli spaghetti al sugo che mangia avidamente, con quell’effetto che solo le macchie di colori ad olio dell’impressionismo pittorico sanno regalare.
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da Antonella Massaro | Set 18, 2013
Corpo a anima il teatro di Emma Dante. Ombre e luci, tenebre e colori, frastuono e silenzio, scherzo e tragedia, vita e morte ne Le sorelle Macaluso. Una storia come tante raccontata in modo unico. Con quell’impeccabile unicità che solo chi ha guardato in faccia l’arte è in grado di far intravedere al suo pubblico. Una famiglia. Delle visioni parziali che lentamente si ricompongono in unità. Le parole non dette finalmente urlate. Ognuno ha un posto assegnato, nella scena e nella vita. Ognuno si porta dietro il suo carico di senso di colpa (che in qualche caso è mera responsabilità oggettiva!), il suo rancore, la sua frustrazione. In una parola: la sua vita. Quella vita in cui si combatte, con tanto di spade e scudi, quella vita in cui si gioca, si soffre, si canta, si piange, si danza. Siamo liberi, eppure attaccati a fili invisibili che ci fanno muovere come tanti pupi siciliani. Siamo insieme, eppure confinati in un inespugnabile solipsismo eterodiretto, con l’impressione che alla fine siano sempre “gli altri” a emettere la condanna alla nostra solitudine. Senza possibilità d’appello. Senza poter più fermarsi a contemplare il sole che brilla sul mare. Con la capacità di guardare davvero il cielo quando ormai siamo definitivamente finiti dietro le sbarre. Senza indulto e senza amnistia.
Non c’è scenografia, i cambi di costume avvengono sulla scena, la fisicità degli attori travolge lo spettatore che, nel buio del Palladium, si affida senza riserve a quella “sospensione dell’incredulità” grazie alla quale il teatro (e il cinema) divengono affascinante anello di congiunzione tra la realtà e il sogno.
data di pubblicazione 15/10/14
Il nostro voto: 
da Antonella Massaro | Set 18, 2013
Il viaggio come metafora della vita è la chiave di lettura lapalissianamente esibita nel film di Maria Sole Tognazzi. C’è poco da interpretare nelle intenzioni dell’(ex) enfant (mai davvero) prodige, che dismette i panni dell’intellettuale a tutti i (radical) costi per confezionare un prodotto che, pur senza eccessive pretese, si rivela nel complesso garbato, a tratti piacevole, con improvvisi e taglienti guizzi nei dialoghi, con una Margherita Buy in splendida forma, fisica e artistica. Forse non meritava proprio tutti i finanziamenti pubblici che scorrono nei titoli di testa, ma l’elegante confezionamento dei titoli di coda, al quale va riconosciuto l’impagabile merito di impedire che le luci in sala si alzino prima della FINE del film, assolve persino il peccato originale di un’Italia che proprio non può fare a meno di cedere alle lusinghe del (cog)nome d’arte.
Margherita-Ulisse-Buy “vive” nei più lussuosi alberghi del mondo, senza mai fermarsi in una “casa” tutta sua, senza mai provare a costruirsi un Mulino Bianco decrepito e abbandonato, ma protetto e nascosto da solide pareti, ispessite dalla rassicurante fissità delle convenzioni sociali. È ospite sporadica nelle case (e nelle vite) degli altri. È spettatrice di una normalità che la affascina e la spaventa, la attrae e la respinge. Questa casa non è un albergo. Questo albergo non è una casa. Questo albergo è un palcoscenico. Basta indossare la maschera e recitare un ruolo. Lo fanno tutti in fondo. Solo che lei ne è fin troppo consapevole e non trova nulla di meglio da fare che recensire il ruolo degli altri, affidando la sua tagliente critica a ossessivi questionari, pieni zeppi di dettagli che non fanno la differenza.
Fino a quando la casa irrompe nell’albergo, le assi del palcoscenico scricchiolano facendolo sprofondare nella vita. E allora una mamma torna a essere una zia. Una donna libera torna a essere una donna sola.
I personaggi che orbitano attorno agli occhi verdi di Margherita Buy sono appena abbozzati, rientrando fin troppo bene in quegli stereotipi che in fondo accolgono con straordinaria generosità chiunque ne faccia richiesta. L’ozpektiano duo delle meraviglie Buy-Accorsi cerca di ricomporsi, nella locandina e nello schermo. Anche se non sono più i tempi di una volta.
Nulla di nuovo, poco di originale. Ma l’assillante interrogativo Chi avviserebbero se mi succedesse qualcosa?, in fondo, si insinua nella mente dello spettatore anche se scevro (o forse soprattutto perché scevro) dalle cedenze retoriche dell’intellettuale a tutti i (radical) costi.
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da Antonella Massaro | Set 18, 2013
(Festival di Cannes 2013, Sezione Un Certain Regard)
Valeria Golino passa dall’altra parte della macchina da presa con un film dolcemente amaro (o amaramente dolce), come il retrogusto di un certo Miele che impatta, abbondante e improvviso, sulle pareti di un palato inaridito, la cui unica missione è quella di prepararsi ad assaporare il gusto della fine.
Il film, ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro (pseudonimo di Mauro Covacich), si confronta con un tema che smuove e commuove, inquadrato da Valeria Golino da una prospettiva certamente non convenzionale e raccontato con un linguaggio “laico”, che pure riesce a mettere a fuoco in modo straordinariamente preciso i nodi ancora irrisolti della dolce morte, tanto come questione morale quanto come questione giuridica.
Una superba Jasmine Trinca, trasformata nel corpo e nell’anima, indossa (letteralmente) i panni di un pietoso Angelo della morte, ma l’incontro con l’ingegner Grimaldi (interpretato da un impeccabile Carlo Cecchi), malato “solo” nell’anima, fa deflagrare in maniera assordante quei dubbi che da tempo accelerano il battito del cuore di Miele.
Da una parte una questione che non è (solo) giuridica, ma che la legge non può più permettersi di ignorare: uno spazio libero dal diritto troppo spesso riempito dall’incontrollabile arbitrio dell’opportunità morale. Dall’altra parte l’indefinibile confine tra la vita del corpo e quella dell’anima: l’illusione della libertà di scelta, che vacilla in quei tre (così poco?) minuti finali, che si dissolve nelle note dell’ultima canzone, che la freddezza del protocollo non riesce a mascherare, che i fumi del Cointreau e della Vodka non riescono a stordire. Perché siamo sempre in tempo per fermarci ma alla fine nessuno vuole morire davvero. Perché di fronte al bivio tra il darsi la morte come animali e il vivere senza umanità non esiste una scelta “giusta”.
L’immancabile trauma infantile subito dalla protagonista e la forse troppo ingenua scena finale non compromette la solida tenuta di un promettente esordio.
Giudizio sintetico: Miele che non smiela.
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da Antonella Massaro | Set 18, 2013
Paolo Virzì torna al cinema con un film corale, che parla di new economy per raccontare l’Italia di sempre, rappresenta la crisi di quel capitale umano che nessun esperto di finanza sarà mai in grado di monetizzare e di mettere a bilancio.
La storia è al tempo stesso una e trina, con i diversi capitoli che, dipanandosi dall’incidente iniziale, fanno muovere sulla scena tanti burattini tenuti in piedi da sentimenti da “dilettanti” allo sbaraglio (come urla Luigi Lo Cascio), con la perenne paura di diventare attori professionisti di una vita dal copione troppo impegnativo per essere recitato come pure meriterebbe.
Malgrado qualche inserto gratuitamente retorico, a partire dall’usurata metafora del teatro in declino e in attesa di un’utopica ristrutturazione, Virzì resta il solito perfetto burattinaio nel dirigere gli abitanti di quel teatro decadente.
I buoni sentimenti prepotentemente trionfanti nel buio degrado di un carcere, mentre intorno la neve si scioglie e il sole lascia brillare le carrozzerie fuoriserie e i sorrisi di chi, quando gli affari vanno bene, si accontenterebbe anche del bastoncino di un cane, concludono il capitolo finale con un happy end tanto amaro quanto ingenuo e obiettivamente poco credibile.
Giudizio sintetico: avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto.
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da Giulio Luciani | Set 17, 2013
(Festival di Toronto 2012)
Margarethe Von Trotta, regista raffinata nota per aver portato sul grande schermo episodi storici poco conosciuti e per aver raccontato la vita di personaggi, sempre femminili, controversi e radicali, si è assunta il grosso impegno di tradurre in linguaggio cinematografico una delle menti più brillanti e prolifiche della filosofia del Novecento.
Il film, pur farcito di numerosi rimandi all’età della giovinezza, è incentrato su un aspetto particolare della biografia di Hannah Arendt, che segnò poi il resto della sua vita, cioè gli anni in cui la filosofa seguì e commentò per il giornale The New Yorker il processo svoltosi a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann. Nel libro che raccolse i suoi articoli, intitolato La banalità del male, la Arendt sostenne la tesi per cui la malvagità del genere umano in realtà non avrebbe nulla di mostruoso, ma si manifesterebbe in una banale e cieca obbedienza a ordini impartiti dall’alto. Eichmann apparve alla filosofa come un uomo mediocre, la cui vera colpa era stata quella di aver perso la capacità di pensare.
Al confine con il linguaggio documentaristico, tanto che sono utilizzate nel film scene vere del processo a Eichmann, la Von Trotta mostra qui di avere un coraggio e un senso di orgoglio non lontani da quelli propri della protagonista del suo film, confermandosi una regista scrupolosa e fedele a un uso critico e ragionato del mezzo cinematografico. Oltre alla testimonianza storica, che in alcuni punti può rischiare di annoiare, il film racconta, al di là della filosofa e della scrittrice, la Arendt donna (grazie all’appassionante interpretazione di Barbara Sukowa) con la sua innata forma di ribellione intellettuale e la sua folle coerenza pubblica e privata, senza mai cedere alle lusinghe dei facili sentimentalismi del genere biopic.
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da Antonella Massaro | Set 18, 2012
Bernardo Bertolucci torna in sala con un film “fatto in casa”: una cantina, due attori esordienti, Roma che fa da sfondo divenendo fin da subito un ingrediente indispensabile della scena. Il tutto legato aristotelicamente da un’unità di spazio, tempo e azione, che guida lo spettatore nell’avvicendarsi di quei sette giorni normali e al tempo straordinari. Perché “normale è niente”, ma un abbraccio è tutto.
La storia si distacca in qualche punto dal racconto di Niccolò Ammaniti, ma la trasposizione filmica dei due protagonisti, interpretati da Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco, è quasi perfetta. I due ragazzini recitano senza recitare, mettendo a nudo le loro anime nella cantina che diviene la loro casa.
La cantina, dove si accumula sotto la polvere un passato destinato qualche volta a tornare, dove si abbandonano cose che non servono più e che in fondo sono le uniche si ha veramente bisogno, dove il disordine esteriore è la via per ritrovare quell’ordine interiore che difetta anche nelle case più splendidamente arredate. Un mondo nel mondo, così vicino eppure così distante da quello “normale”. La macchina da presa si muove guidata da una mano che sa quello che cerca: di tanto in tanto lo sguardo si perde nella vertigine di palazzi così alti da schiacciare chi abbia l’ardire di alzare gli occhi al cielo, per poi tornare sulla rassicurante fissità di quel vialetto che, come il binario 9 ¾ di Harry Potter, nasconde la porta d’accesso a un modo al quale solo chi non è perfettamente “normale” ha il privilegio di accedere. Lei a un certo punto balla da sola. Poi si accorge che in quel momento è sola, anche se solo per un momento.
Giudizio sintetico: il vero Maestro è colui che ha sempre qualcosa da insegnare.
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da Maria Letizia Panerai | Ott 6, 2010
L’immobiliarista romano Luciano Baietti (Christian De Sica), dietro consiglio del suo commercialista Sergio Bollino (Luca Zingaretti), per salvarsi da una situazione economica e giudiziaria difficile e dalla inevitabile galera avendo addosso Magistratura e Guardia di Finanza, decide di intestare la sua “Baietti Enterprise”, una società che naviga in bruttissime acque, al figlio più piccolo Baldo (il bravo attore esordiente Nicola Nocella). Il ragazzo, ingenuo ma buono e generoso, è stato cresciuto nel mito di questo padre mai conosciuto dalla madre Fiamma (Laura Morante). Ma ciò che fa del personaggio di Luciano Baietti un padre davvero spregevole, è che se ha potuto creare il suo impero immobiliare, è stato tutto grazie ai soldi dell’ingenua donna che lui stesso chiama la scemina, raggirata e derubata dei suoi beni immobili proprio grazie ad un “matrimonio-farsa” di cui solo lei sembra non essersi mai accorta. Commedia dai risvolti drammatici, Il figlio più piccolo nasce, per asserzione dello stesso Avati, da una voluta ispirazione alla famosa Commedia all’italiana dei tempi d’oro, quella che faceva riflettere senza operare delle omissioni sulle atrocità morali di certe azioni. Il regista completa così la sua trilogia sui padri, dedicandosi al peggiore, dopo il melanconico Diego Abatantuono ne La cena per farli conoscere ed l’irriducibile Silvio Orlando ne Il Papà di Giovanna, pellicola questa decisamente più convincente rispetto alle altre due.
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da Maria Letizia Panerai | Set 18, 2010
(Festival di Roma 2010- Fuori Concorso)
Presso gli stabilimenti della Ford di Dagenham, piccolo borgo ad est di Londra, 187 operaie addette a cucire i sedili in pelle delle automobili vengono declassate come “non qualificate”. Siamo nel 1968 e queste lavoratrici, al tempo stesso mogli e madri, decidono coraggiosamente di iniziare una lotta per ottenere la parità salariale con i colleghi di sesso maschile: con forza e determinazione riescono ad imporsi sul sindacato, la comunità locale e il management aziendale, sino ad ottenere il sostegno del ministro laburista Barbara Castle. Ispirato ad una storia vera, We want sex è un film ricco di humour, ironico ed intelligente, che affronta con misura e leggerezza problematiche sociali quali la diseguaglianza, ancora oggi molto attuali. Il film, tra i migliori presentati quest’anno Fuori Concorso al Festival di Roma, vanta un cast femminile di alto livello, bei costumi e musiche indovinate. Bravissimi Bob Hoskins e Sally Hawkins.
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da Maria Letizia Panerai | Set 18, 2010
(63^ Festival di Cannes- in Concorso)
Il regista di Segreti e Bugie e de Il segreto di Vera Drake, dopo la digressione con Happy Go Lucky (2008), torna sui temi a lui tanto cari: le persone viste nelle loro dinamiche quotidiane, familiari e di amicizia, osservate nella loro assoluta normalità. Attraverso l’avvicendarsi delle stagioni di un anno solare, Mike Leighci racconta le piccole e grandi gioie, i dolori, le speranze ed i problemi quotidiani, di un manipolo di amici e parenti che interagiscono con il geologo Tom e la psicologa Gerri. I due coniugi, sempre ben disposti ad ascoltare gli altri, accolgono nella loro casa di campagna la segretaria di lei Mary ed il silenzioso fratello di lui Ronnie; l’alcolizzato Ken, vecchio amico di Tom, ma anche il loro unico figlio Joe, avvocato e scapolo, finalmente innamoratosi della la sua nuova compagna Katie. Con Another Year, Leigh ci regala un nuovo, splendido affresco della normalità: un’opera corale, con un cast di attori eccellenti, in cui si respira la vita, quella vera. Jim Broadbent, Ruth Sheen e Lesley Manville semplicemente straordinari.
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