SOPRA DI ME IL DILUVIO Compagnia Enzo Cosimi

SOPRA DI ME IL DILUVIO Compagnia Enzo Cosimi

(Teatro Vascello – Roma, 28 ottobre/1 novembre 2015)

Ossa, poltrone dai broccati polverosi e sfilacciati, tendini in tensione, atmosfere sulfuree, canti sintetici di uccelli all’orizzonte. Nel mezzo l’azione di un’unica protagonista, Paola Lattanzi. Il suo è un movimento androgino, violento, tribale e irrefrenabile, ma al tempo stesso rigoroso e mistico. Espressioni corporee esasperate  che fendono un spazio ampio e indefinito, crudo.

E’ Sopra di me il diluvio, l’ultima creazione di Enzo Cosimi, coreografo e regista tra i più autorevoli della danza contemporanea italiana, debutto assoluto della Biennale Danza 2014 diretta da Virgilio Sieni, Premio Danza&Danza 2014 come Migliore Produzione Italiana, al teatro Vascello fino al 1 novembre.

Cinquanta minuti di pathos viscerale, di mimiche estreme, di scatti e tensioni, di dramma e dolore; una riflessione potente sulla vita terrena e sul rapporto con la Natura. A gambe aperte tra fossili e reperti tribali, la donna evoca l’eros e selvaggiamente marca il territorio. Toglie le scarpe feticcio e si denuda. Affonda il viso in una scatola, lo rialza con in bocca strisce di stoffa rosso fuoco. Ha azzannato la preda. Nel frattempo ossa e reperti diventano collane, decoro, simboli. Pian piano la luce si intensifica e si raffredda e sale come la nebbia. Tutto ora è bianco ed etereo. Anche i frastuoni ed i silenzi hanno lasciato il posto ad una nenia ancestrale e toccante e l’Africa con le sue violenze e le sue contraddizioni, con la sua purezza e la sua vitalità primaria, diventa l’immagine portante che dal piccolo monitor televisivo si espande sulla scena e su tutti.

data di pubblicazione 29/10/2015

LO STAGISTA INASPETTATO di Nancy Meyers, 2015

LO STAGISTA INASPETTATO di Nancy Meyers, 2015

Ben Whittaker (Robert De Niro) è un “signore” alle prese con la terza età e con tutto ciò che essa comporta in termini di perdite frequenti e di vuoti incolmabili. Pur non mancandogli interessi e passatempi, decide di tornare nuovamente a far parte degli ingranaggi tipici del mondo del lavoro. Qui incontra Jules (Anne Hathaway), ideatrice di un nuovo format di vendita online, dinamica e creativa, ma soprattutto innamorata del suo lavoro. Se per stare dietro a tutti gli impegni che la sua attività in ascesa comporta si muove nell’open space in cui lavora con una bicicletta, l’escamotage non funziona quando si tratta di occuparsi della sua famiglia e, in particolare, di un marito che ha abbandonato la sua carriera per consentire alla moglie di proseguire la propria e che presenta i primi segni della sindrome “da abbandono”.

Ben entra velocemente nelle vite e nei cuori dei suoi colleghi, divenendo modello esemplare di una specie in via di estinzione, quella dei cavalieri senza macchia; più faticosamente riesce a fare breccia nella impenetrabile corazza di Jules, dimostrandosi insospettabile fautore della lotta femminista e sostenitore dei diritti della donna. Sembra difficile trovare nella realtà un uomo così perfetto, un sostenitore e una guida, ma forse lo scopo del film è quello di prospettare la possibilità che gli uomini non si intimoriscano dinanzi a donne in carriera e intelligenti e siano in grado di star loro accanto. In questa realtà, l’uomo è capace di farsi da parte proprio come Robert De Niro che, protagonista nella parte iniziale del film, lascia poi tale ruolo alla sua, altrettanto brava, collega Anne Hathaway.

Il film si arricchisce di qualche divertente sequenza ma, volgendo verso la conclusione, perde di mordente e finisce per rivelarsi la tipica commedia USA in cui il sogno americano viene realizzato da una donna, in piena coerenza con un mondo che vede sempre più il sesso femminile protagonista. Tuttavia, anche se volto a esaltare la figura della donna in carriera in un’ottica anticonformista, Lo stagista inaspettato incorre a volte negli stessi cliché che condanna, come avviene con la figura del marito di Jules, “mammo” non per scelta che viene calato troppo esageratamente nello stereotipo della casalinga disperata.

data di pubblicazione 25/10/2015


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FESTA DEL CINEMA DI ROMA: “POCHI MA BUONI”

FESTA DEL CINEMA DI ROMA: “POCHI MA BUONI”

Bilancio positivo per il Festival del cinema (ora di nuovo Festa di Roma): la presenza ridotta di folla all’interno del villaggio dell’auditorium (carente quest’anno della sala Santa Cecilia) è stata compensata dai cinema sul territorio e soprattutto dalla qualità dei film presentati.

“ Pochi ma buoni” può essere lo slogan della Festa, diretta per la prima volta da Antonio Monda. Pare che le minori presenze siano dovute a tappeti rossi poco attraenti per il pubblico, ma il Direttore Artistico ha obiettato che gli attori di grido sarebbero venuti con film di livellonon elevato, mentre il suo modello di riferimento è il Festival di New York.

Le 313 proiezioni, su ben 14 schermi, cioè le consuete sale dell’Auditorium più le nove sale sparse sul territorio romano, hanno visto la presenza di 48.206 persone fra paganti e gratuiti e di quasi 5 mila  accreditati.

Non ci piace parlare di cifre, preferiamo parlare di qualità che senz’altro ha caratterizzato questa nuova impostazione della Festa. Si nota l’assenza della sezione EXTRA, seguita con interesse dagli affezionati, che spesso la preferivano ai film in concorso, ma non sono mancate interessanti sorprese ed esperimenti o film didattici da sostenere e diffondere.  Una magia saracena di Vincenzo Stango, per esempio, riuscito racconto di storia della matematica, snobbata nel nostro paese e giustamente associata alla capacità critica poco in uso in un futuro, nel quale ragionerebbe per noi solo un cervello centralizzato.

Mancanza di capacità critica, dovuta all’input sociale dell’obbedienza, indagano anche gli esperimenti degli anni ’60 portati avanti dallo psicologo Stanley Milgram nell’interessante, e con riuscite soluzioni registiche, Experimenter di Michael Almereyda.

Psicologi da indagare, invece, nell’inquietante documentario The confessions of Thomas Quick di Brian Hill, sul serial killer svedese degli anni ’80; pellicola che può essere inserita – dati gli anni passati in manicomio penitenziario dal protagonista della vicenda – anche nel filone claustrofobico, cui appartengono molti dei film di questa kermesse, facendone quasi un filo conduttore.

Primo tra tutti il delicato, nonostante lo scabroso argomento di reclusione della vittima a scopi sessuali, Room dell’irlandese Lenny Abrahamson, regista conosciuto con Garage del 2007;  con poesia, oltre analizzare non superficialmente il dolore della donna, riporta alle nostre coscienze lo stupore della conoscenza del mondo da parte dei bambini, ma anche la loro  intatta capacità critica dovuta al non essere ancora inseriti nel meccanismo sociale.

Tra i film col tema della chiusura in casa, un grande interesse ha suscitato The Wolfpack di Crystal Moselle, già in sala, che ha meritatamente ottenuto, dalla giuria presieduta da Giovanni Veronesi,  il Taodue Camera d’Oro per la miglior opera prima. La stessa giuria ha premiato, con una Menzione speciale, Mustang di Deniz Gamze Erguven, già scelto per partecipare agli Oscar; tratta di cinque bellissime sorelle chiuse in casa in un villaggio turco.

Mentre la giuria (composta da 22 ragazzi e ragazze tra i 15 e i 18 anni, selezionati in tutta Italia ) del concorso Young/Adult di Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, ha ritenuto di premiare Four Kings, opera prima della regista tedesca Theresa Von Eltz, che segue quattro ragazzi rinchiusi in un ospedale psichiatrico.

Di questo filone può far parte anche il visivamente accattivante Office del grande regista cinese Johnnie To, sui meccanismi insiti in un gruppo chiuso, come quello di una grande società miliardaria: un prezioso musical.

A pieno titolo ci rientra il messicano Distancias cortas, che fa parte anche del filone latino americano, cinematografia, a buon diritto, pluripremiata negli ultimi festival: un ragazzo obeso si autoisola in casa per le sue difficoltà a relazionarsi con gli altri.

The Whispering Star del giapponese Sion Sono: chiusi in un container che è, una delle tante geniali invenzioni visive di questo film, un’astronave, giriamo insieme alla postina spaziale nell’universo mondo, attratti dall’elegante fotografia in bianco e nero.

Interessantissime le retrospettive: “I film della nostra vita”, che accomuna in modo quasi affettuoso le menti dei cinefili, con un film scelto a testa dai membri del Comitato di selezione; riportare all’attenzione il nostro grande Antonio Pietrangeli è stata un’operazione graditissima a molti, come far conoscere finalmente l’imperdibile regista cileno Pablo Lorraìn dalla forte cinematografia.

Da ringraziare i selezionatori per gli altri numerosi buoni film, impossibile da citare tutti, per alcuni dei quali rimandiamo agli articoli in questa testata.

Una buona notizia: la maggior parte dei film e perfino dei documentari usciranno in sala per essere visti, ci auguriamo, dal grande pubblico.

data di pubblicazione 25/10/2015

FESTA DEL CINEMA DI ROMA: “POCHI MA BUONI”

EVA NO DUERME di Pablo Alguero (Festa Cinema di Roma 2015- Selezione Ufficiale)

Il cinema dell’America latina si conferma in ottima forma, da qualche anno il Sudamerica è fucina di nuovi importanti talenti registici, in primis il cileno Larrain a cui proprio la festa romana ha dedicato una retrospettiva e che ha vinto la Berlinale 2015,  mentre anche  all’ultima Venezia altri  due registi ,uno venezuelano e uno argentino, hanno meritato i premi principali.

Davvero sorprendente è questo Eva no Duerme firmato da un giovanissimo ma già maturo astro, Pablo Aguero che come i suoi predecessori ha affrontato un tema scabroso, legato alla storia del suo paese, l’Argentina svolgendolo con impressionante originalità e creatività senza ossessioni realistiche, ma anzi con felici esiti visionari e potenti.

La storia è quella, che ha dell’assurdo, ma è vera, della complicata vicenda della salma dell’eroina Evita Peron, che alcuni governi e regimi hanno sottratto all’adorazione popolare prima di celarla in Patria e poi spedita in Vaticano, infine a furor di popolo riportata in Patria prima di una definitiva sepoltura e cementificazione.

I temi in gioco sono tanti e impegnativi: il valore delle icone popolari, l’eventuale sfruttamento di esse, la parabola di un Paese, l’incubo di una Storia sempre sull’orlo di abissi illiberali, eppure l’inventiva del giovane Aguero risolve con freschezza e stile personalissimo, trasformando la vicenda in esemplare apologo.

Spiace dirlo ma in Italia nessuno ha saputo trattare simili spettri del nostro passato, ad esempio l’argomento terrorismo anni settanta, con eguale e clamorosa forza espressiva.

data di pubblicazione 25/10/2015








FESTA DEL CINEMA DI ROMA: “POCHI MA BUONI”

GRANDMA di Paul Weitz (Festa del Cinema di Roma 2015 – Alice nella Città)

Elle (Lily Tomlin) è una nonna speciale.  Poetessa, lesbica, sgorbutica, intelligente e folle, ha un passato doloroso alle spalle, una ferita ancora aperta per la morte della partner dopo 38 anni insieme. Improvvisamente si trova a dover rispondere alla richiesta di aiuto della nipote Sage, diciotto anni appena ed un problema di non poco conto, una gravidanza inaspettata e da interrompere; e solo una mattinata davanti per trovare i 630 dollari che una clinica le ha preventivato per  effettuare l’operazione, prevista per il pomeriggio.

Inizia cosi un viaggio in macchina per ville e colline di Los Angeles alla ricerca della somma necessaria per affrontare l’intervento. La madre della ragazza nonchè figlia di Elle è una donna in carriera, i rapporti non sono idilliaci, impossibile chiederle aiuto. Elle è un fiume in piena, divertente, isterica e straziante. La recente perdita, la morte di quella donna con cui ha vissuto un’intera esistenza, l’ha spezzata in due, allontanandola dalla figlia e rendendola ancor più intrattabile di prima. Anche la recente storia con una donna più giovane sta naufragando. Inizia così la ricerca del denaro e come il vaso di Pandora ogni piega irrisolta del passato viene fuori, aprendo di fatto un sentiero che porterà le due donne a conoscersi meglio, coinvolgendo alla fine anche la madre della ragazza, ricucendo così i sentimenti di una famiglia fino ad allora divisa.

Aborto, omosessualità, responsabilità, amore, famiglia sono i temi affrontati con forza e chiarezza in un film che però non giudica e si limita, con grande efficacia, a raccontare la vicenda.

Pensato e diretto da Paul Weitz, che ha regalato al cinema prodotti come About a Boy o il culto generazionale American Pie, Grandma è un indie on the road con tre grandi attrici, mamma (Marcia Gay Harden), figlia (Julia Garner) e nonna (la già citata Lily Tomlin) con momenti divertenti e battute efficaci, una storia tutta al femminile alle prese con un bilancio delle proprie scelte generazionali.

Cinico, malinconico ed esilarante, Grandma è una pellicola sulle relazioni, interrotte e da recuperare, su segreti non detti e rancori mai superati, su affetti sepolti che ritornano a galla. Una storia forte di indipendenza e di sentimento fra tre donne difficili, di fatte cresciute senza uomini, che alla fine si ritrovano, ridando essenza e vitalità alle loro stesse esistenze .

data di pubblicazione 25/10/2015








FESTA DEL CINEMA DI ROMA: “POCHI MA BUONI”

EXPERIMENTER di Michael Almereyda (Festa Cinema di Roma 2015 – Selezione ufficiale)

A chi abbia anche solo qualche rudimento di sociologia il nome di Stanley Milgram suona certamente familiare. La teoria del mondo piccolo e l’invito a salire su un autobus cantando a squarciagola sono solo alcuni dei contributi offerti dallo “Sperimentatore” allo studio delle relazioni sociali e dei comportamenti individuali.

Stanley Milgram è però anzitutto lo psicologo che tentò l’ardita impresa di verificare sperimentalmente “la banalità del male”, attraverso i suoi discussi studi sull’obbedienza e l’autorità. L’efficienza con la quale fu eseguito il genocidio commesso dalla Germania nazista, documentato, tra l’altro, dalle lucide dichiarazioni rese da Adolf Eichmann nel processo che si concluse con la sua esecuzione capitale, è stata spesso “spiegata” come necessaria obbedienza all’ordine insindacabile di un superiore gerarchico. Il conflitto tra valori e le istanze di matrice etico-sociale sembravano non svolgere alcun ruolo significativo nei rapporti tra soggetti condizionati dal vincolo di una relazione gerarchica costituitasi legittimamente.

Milgram riproduce in laboratorio le condizioni che consentano di verificare fino a che punto gli individui siano disposti a spingersi pur di obbedire a un ordine loro impartito, il quale comporti la somministrazione di potenti scosse elettriche a un soggetto “subordinato”. I risultati relativi ai rapporti tra “obbedienza” e “ribellione” sono meno confortanti di quanto Milgram e il suo gruppo si aspettassero. Il libro che illustra gli esiti dell’esperimento (Obedience to Authority. An Experimental View, pubblicato nel 1974, dopo più di un decennio dalla conclusione delle “prove di laboratorio”) non può che suscitare interesse, ma anche scetticismo e aspre critiche.

Experimenter, con un andamento che, almeno a tratti, ricorda quello di A beautiful mind, ricostruisce con attendibile precisione gli studi condotti da Milgram, interpretato da un convincente Peter Sarsgaard. L’andamento inevitabilmente didascalico che il racconto si trova ad assumere risulta perfettamente amalgamato nel tessuto narrativo, che, lasciando in secondo piano la personalità dello psicologo, si concentra su suoi studi e sulla rilevanza non solo sociologica degli stessi.

Il film di Almereyda conduce lo spettatore non solo nei meandri della riflessione storica, ma anche in quelli dell’eterna e irrisolta dialettica tra determinismo e libero arbitrio, tra oscura incoscienza e lucida consapevolezza, tra uniforme conformismo e eccezionale ribellione. Ognuno, guidato dalle riflessioni di Milgram, è libero di risolvere a modo suo quella dialettica.

L’esperimento dello Sperimentatore può dirsi dunque pienamente riuscito.

data di pubblicazione 24/10/2015

[sc:convinto ]

FESTA DEL CINEMA DI ROMA: “POCHI MA BUONI”

ALASKA di Claudio Cupellini (Festa Cinema di Roma 2015 – Selezione ufficiale)

ALASKA di Claudio Cupellini

(Festa Cinema di Roma 2015 – Selezione ufficiale)

Fausto (Elio Germano) e Nadine (Astrid Berges-Frisbey) sono i protagonisti di una labirintica storia d’amore vissuta (e prodotta) tra Francia e Italia. Due solitudini che si incontrano e si scontrano, nel tentativo di divenire una coppia in grado di resistere all’impeto e alla potenza della vita. L’impellente desiderio di rivalsa e di ascesa lasciano però emergere l’Ego di Fausto, irresistibilmente attratto dallo schermo delle convenzioni sociali, così gelido eppure così rassicurante.

L’Alaska, locale notturno che Fausto decide di gestire insieme a Sergio (Valerio Binasco), diviene la causa e al tempo stesso l’effetto di un’autentica svolta per i due protagonisti. Sarà del resto proprio Sergio, emblema della chiassosa solitudine in cui è costretto a rifugiarsi chi, per scelta o per destino, resta confinato ai margini di una società in cui l’inclusione significa a volte annientamento, a determinare il riavvicinamento tra Fausto e Nadine, proprio quando la separazione sembrava ormai irreversibile.

L’impianto narrativo segue un interessante andamento circolare, riportando i personaggi e lo spettatore al punto di partenza, visto questa volta da una prospettiva esattamente speculare. È proprio la sceneggiatura, tuttavia, che rappresenta forse il più evidente anello debole della lunga catena di Alaska: succedono tante cose nel film di Cupellini, lasciando l’impressione che la troppa carne al fuoco finisca, almeno a tratti, per gettare fumo negli occhi, disorientando lo sguardo dello spettatore.

Resta impeccabile l’interpretazione di Elio Germano, convincente nei numerosi e spesso repentini cambi di registro e in grado di restituire pienamente la banale complessità del personaggio di Fausto.

Il regista di Lezioni di cioccolato, Una vita tranquilla e Gomorra – la serie riesce indubbiamente nella sfida di confezionare un prodotto originale, che solo a fatica si lascia incasellare nelle maglie troppo strette del genere, ma che non sembra trovare una propria identità al di là della consolante morale sulla forza inarrestabile dell’Amore.

data di pubblicazione 24/10/2015







FESTA DEL CINEMA DI ROMA: “POCHI MA BUONI”

OURAGAN, L’ODYSSÉE D’UN VENT di Cyril Barbançon e Andy Byatt (Festa Cinema di Roma 2015 – Selezione ufficiale)

Il vento può assumere le vesti di una refrigerante brezza o quella di una tempesta devastante. Il vento è tiranno eppure sottoposto alle leggi dell’universo. Il vento è forza cieca e all’apparenza “amorale”, ma imprime stabilità all’equilibrio del Tutto.

Ouragan, l’Odyssée d’un vent ripercorre il viaggio di Lucy, creatura cinematografica nata dalle immagini di cicloni reali raccolte dal regista Byatt e dal suo operatore Barbançon. Il diario di viaggio, raccontato dalla voce fuori campo della stessa Lucy, che scandisce le tappe del suo incedere affidandosi alle poetiche parole di Victor Hugo, è indubbiamente affascinante e coinvolgente. L’imprevedibile mutevolezza del vento attraversa la superficie dei deserti e la profondità degli abissi, accarezzando o travolgendo creature spettacolari che trovano il loro senso solo in quanto inserite nella più ampia complessità dell’equilibrio naturale. L’uomo prova a innalzare il proprio sguardo fino allo spazio, nel tentativo di prevedere e controllare i movimenti di Lucy e dei suoi simili. Neppure la più raffinata delle tecnologie può però incasellare nella fredda rigidità del calcolo matematico la sinuosa imprevedibilità della tempesta.

Lo spettatore si trova immerso nella maestosità di scenari grandiosi, impreziositi da dettagli che solo l’occhio di una telecamera attenta e paziente è in grado di scovare. Il tutto amplificato dalla spettacolare magnificenza del 3D, capace di condurre attraverso le spettacolari forme di vita che popolano la barriera corallina per poi trascinarlo direttamente nell’occhio del ciclone.

Malgrado l’indubbia suggestione dell’impatto visivo, Ouragan non riesce ad andare oltre la facciata di un documentario naturalistico. Il racconto, inquadrato dal punto di vista di Lucy, lascia sullo sfondo il tema, indubbiamente presente, del rapporto tra Uomo e Natura e la trama narrativa appena accennata non sempre offre un sostegno reale a immagini che, pur potenti e suggestive, corrono il rischio di rimanere confinate nell’angusto recinto della mera vertigine estetica.

data di pubblicazione 24/10/2015







FESTA DEL CINEMA DI ROMA: “POCHI MA BUONI”

INCONTRI RAVVICINATI – TODD HAYNES (Festa Cinema di Roma 2015)

The Price of Salt è il secondo romanzo di Patricia Highsmith che dopo il fortunato esordio con Strangers on a Train, adattato da Hitchcock (successivamente Delitto per delitto), non trovò un editore a causa della storia omosessuale che vi si narrava. Fu pubblicato con uno pseudonimo ed ebbe un grande successo; eppure fu rieditato solo negli anni 80 con il nome della sua autrice e con il titolo con cui oggi lo porta sugli schermi Todd Haynes, Carol, presentato a Cannes 2015 dove Rooney Mara ha vinto il premio come miglior attrice.

Haynes, che più volte nel suo cinema ha reinventato il genere del melò in chiave moderna, anche in questo caso trascina emotivamente fin da subito lo spettatore in una appassionata storia d’amore ammorbidita dal velluto, dai colori tabacco, dalle risposte appena accennate e spesso dai silenzi, in un esercizio magistrale di equilibri tra la forza tellurica della passione al suo manifestarsi e l’impreparazione, la reticenza, di chi la sente e non può o non riesce ad abbandonarcisi. Haynes ha dichiarato che ciò che lo aveva colpito della Highsmith era l’essere riuscita a stabilire un’analogia tra la patologia della mente criminale che racconta nel resto della sua opera, e la patologia della mente amorosa, imponendo la stessa visione ansiogena a entrambi gli stati.”

New York, 1952, a pochi giorni dal Natale Carol, una meravigliosa Cate Blanchett, si aggira nel reparto giocattoli di un grande magazzino sotto gli occhi rapiti e incuriositi della commessa Therese Belivet (Rooney Mara). I guanti lasciati sul bancone dalla elegantissima signora, proprio come in un romanzo cavalleresco, saranno il mezzo attraverso il quale le due donne si rivedranno. Therese è molto più giovane dell’altra che dal suo matrimonio con Harge ha avuto, cinque anni prima, una bambina amatissima. Carol vive in una villa fuori città, una prigione dorata dove è obbligata a rispettare le convenzioni di un mondo alto borghese per poter stare accanto a sua figlia. Ma il matrimonio è alla fine, provato da una precedente unione di Carol con Abby e dall’incomprensione del marito che come i genitori, pensa di poter “riparare” i desideri omosessuali della moglie con la psicoterapia e ricondurla alla ragione. Therese è innamorata dell’obbiettivo della macchina fotografica con la quale scopre il mondo, e respinge timidamente il suo fidanzato che vuole sposarla, perché nel fondo sente di non potergli corrispondere. Non ha ancora i mezzi, a parte l’obbiettivo, per conoscere se stessa, ma non esita a seguire Carol.

La loro storia d’amore, raccontata in lungo flashback, racchiude il percorso di trasformazione che le due donne compiono nel loro viaggio verso Ovest. La timida Therese tra le braccia di Carol scopre se stessa e la sua determinazione, e al ritorno non sarà più una commessa ma una fotografa del “Times”. Carol proverà ancora, negando se stessa, a essere una moglie irreprensibile per poter restare accanto a sua figlia; ma l’amore per Therese la cambia per sempre, spingendola a rinunciare perfino alla custodia della piccola pur di vivere con lei.

Un film che racconta passioni forti, ma Haynes ha scelto la strada della sottrazione, seppur attraverso una raffinatissima eleganza, evidente sia negli ambienti che nei costumi, smorzandola, filtrandola, in modo da spingere lo spettatore a sentire l’urgenza di cambiare le cose, a forzare quella quiete che le case e i panni ripropongono. Un film girato a basso budget e che invece mantiene l’eleganza vellutata del genere cinematografico che reinventa, quello della bellezza melò di Douglas Sirk de La magnifica ossessione, o della perfezione registica di Howard Hawks de Il grande sonno, tanto da rendere Carol un’emanazione luminosa di Lauren Bacall. La pelle diafana sotto la quale vibra il desiderio per Therese, quella stessa raffinata eleganza che muta impercettibilmente a seconda di dov’è e di chi la guarda. Se sono gli occhi di Therese o il suo obbiettivo si rivela anche fragile, fragilità che invece socialmente si trasforma in sicurezza, e la Blanchett passa da uno stato all’altro con la morbidezza e la naturalezza della grande attrice. Corrono verso l’Ovest, ma sanno che la loro vera battaglia andrà condotta in città. È in quel teatro del mondo che devono trovare la loro dimensione sociale, quella del lavoro, quindi politica sembra dire Haynes, per poter essere se stesse e vivere il loro amore. Gli uomini di questa storia sembrano non avere alcun mezzo per comprendere cosa accade alle donne in generale e alle loro in particolare. Sono increduli e si affidano al controllo, alle minacce, e perdono, annunciando l’inizio di una rivoluzione sociale che cambierà per sempre i rapporti tra i sessi. Mentre Therese cerca dentro di sé una risposta alla richiesta amorosa di Carol, dietro un vetro offuscato dalla pioggia dove scorre la storia del loro amore e il film che stiamo vedendo, si alternano i sentimenti declinati in colori, la complessità e l’ambivalenza di ogni storia d’amore.

Come in Lontano dal paradiso, Haynes, per raccontare le trasformazioni e le contraddizioni sociali, sceglie un’America sulla soglia del cambiamento, gli anni 50, con uno stile cinematografico capace di assorbire la lezione dei grandi film di quegli anni e restituirlo arricchito della complessità sociale ed emozionale del presente. Come se anche noi e non solo Therese, stessimo guardando attraverso un vetro a quel laboratorio così sorprendente che è la vita, da una distanza ovattata e morbida, proprio come il serico bianco e nero de Il grande sonno, ancora chiusi dentro una macchina appannata dall’acqua, ma ormai a solo un passo dal futuro.

data di pubblicazione 23/10/2015

PSICOSI DELLE 4.48, regia di Walter  Pagliaro

PSICOSI DELLE 4.48, regia di Walter Pagliaro

(Teatro Palladium – Roma, 20/25 ottobre 2015)

Entrati nel teatro la maschera ci accompagna dietro le quinte. Avanziamo con cautela, domandandoci se stiamo seguendo la persona giusta. L’addetta ci invita a proseguire e ci indica di superare il sipario.

Col cuore in gola, ci tuffiamo sul palcoscenico dove sedie collocate a semicerchio e un candido letto bianco ci aspettano: stasera saremo protagonisti del delirio cosciente di una psicotica.

Le luci si abbassano, nel teatro si fa buio, una voce rauca, tenebrosa recita la seguente frase: che cosa offri ai tuoi amici per renderli così disponibili?

La domanda sibillina apre il monologo scritto da Sarah Kane 4.48 Psychosis (orario in cui si ritiene che la spinta al suicidio sia più forte), interpretato da una straziante (nel senso buono del termine, dato che si tratta di un dramma) Micaela Esdra, la quale riesce a trasmettere il disagio vissuto dall’autrice della pièce teatrale.

L’attrice si esalta specialmente nel momento della spersonalizzazione, in cui trasmette in modo penetrante la perdita di contatto con la realtà; meno nel dialogo interiore con se stessa, dove non si percepisce appieno la lotta intestina (quasi al limite del bipolarismo) del soggetto con il suo alter ego.

La mise en scène è essenziale ma efficace; azzeccato il cambiamento del colore delle luci a seconda dei vari stati d’animo che attraversa la protagonista.

L’esperienza che si vive durante il monologo è surreale: si è spettatori-attori immobili e impotenti di fronte alla tragedia che si sta per consumare, come spesso accade nelle realtà.

È uno spettacolo unico e che merita di esser visto, se non altro per provare l’esperienza di essere sul palcoscenico, tête à tête con l’attice.

Volete essere anche voi attori per una sera? Non perdetevi la rappresentazione finale al Teatro Palladium di Roma!

data di pubblicazione 23/10/2015


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