da Antonio Jacolina | Ago 24, 2020
“… pochi Imperi nella Storia hanno conseguito sia la dimensione geografica sia la capacità di integrazione del “commonwealth” romano. Nessuno come i Romani ha saputo combinare fra loro le dimensioni territoriali, l’unità dello Stato e la sua longevità ultramillenaria…”.
Siamo forse davanti all’ennesima analisi sul declino e sulla caduta dell’Impero Romano?
Niente affatto! Finora hanno sempre dominato come cause: fattori politici, militari, economici, demografici… il libro di Harper è invece uno studio acuto, ben articolato e documentato che offre una chiave di lettura del tutto nuova e stimolante su temi che, a torto, si suppone spesso di conoscere già a sufficienza. Un libro che ci permette di vedere un periodo complesso sotto un punto di vista spesso tralasciato o, del tutto sottovalutato da parte degli storici. Il lavoro dello studioso americano ha infatti l’originalità e l’intuizione di esaminare gli eventi dei secoli cruciali per Roma sotto l’ottica ecosistemica, climatologica ed epidemiologica. Oggi le competenze e le risorse scientifiche dell’Archeobotanica e dell’Archeomedicina consentono cose che fino a 15 o 20 anni fa non si potevano nemmeno immaginare: si può sequenziare il DNA di resti umani e non, ritrovati negli scavi e poi risalire con quasi certezza alle situazioni climatiche, alimentari, sociali e sanitarie e scoprire anche i percorsi e le evoluzioni genetiche di quel nemico occulto del genere Umano che sono stati e sono i Virus Letali. La Storia non è più quindi solo la sequenza di fatti ed azioni compiute dagli uomini in un contesto in cui l’ambiente faceva solo da sfondo stabile ed inerte allo sviluppo storico, ma è invece anche l’insieme di eventi naturali mutevoli, di cicli solari, di eruzioni vulcaniche, di instabilità climatiche, di pandemie devastanti che hanno influenzato e spesso deciso la Storia. La Storia va quindi riscritta e riletta in modo nuovo.
In effetti la risposta a come sia stato possibile il crollo dell’Impero Romano dipende dal maggior o minor grado di focalizzazione dello storico. Su piccole scale: le scelte umane potrebbero sembrare aver avuto un valore dominante, soprattutto se giudicate a posteriori. Su un quadro di maggiori dimensioni: si potrebbero individuare nell’Impero alcuni difetti strutturali (guerre civili, peso fiscale, pressioni sulle frontiere da parte di popoli invidiosi od affamati). Passando ad una visione più ampia ancora: si potrebbe anche definire la caduta di Roma come l’inevitabile destino di ogni impero. Ogni umana creazione è destinata a perire! Tutte cose contemporaneamente vere ma non determinanti in assoluto. In realtà, per l’autore, l’elemento che su tutte è veramente determinante è il trionfo della Natura sulle realtà umane. L’Impero Romano era un impero grandioso ed urbanizzato con ampie reti commerciali che aveva realizzato una sorta di miniglobalizzazione ante litteram. Proprio questa sua ampiezza ha poi aperto le sue porte anche al flusso di elementi patogeni divenuti pandemici e devastanti, provenienti, allora come anche oggi, dall’Asia. La Natura con le sue forze evolutive od involutive era ed è in grado di cambiare il mondo.
Harper è bravo nel documentare con rigore scientifico ricco di riferimenti la sua tesi intrecciando i fatti storici con le ultime scoperte in campo climatico e genetico: basti pensare alle siccità impreviste e soprattutto alle ondate pandemiche virali che scossero l’Impero arrestandone prima la crescita ed il benessere, poi le reazioni e la ripresa sociale ed infine, con la Peste Bubbonica, tagliando definitivamente ogni sua capacità demografica, economica e militare.
Il Destino di Roma è un libro interessante, scritto con prosa scorrevole che genererà polemiche fra gli storici e affascinerà gli appassionati, regalando uno scorcio di visuale del tutto nuovo sul nostro passato che dovrebbe però farci anche molto riflettere sulle analogie con il nostro fragile Presente ed il nostro incerto Futuro.
data di pubblicazione: 24/08/2020
da Antonio Jacolina | Ago 11, 2020
Una piacevole scoperta! Valérie Perrin sa veramente costruire e raccontare le sue Storie in un progressivo crescendo di interesse e coinvolgimento del lettore, è innegabile! Non scrive delle semplici parole o frasi, ma scrive delle emozioni. La sua è una scrittura sensibile e realista, sensuale ed intimista, moderna, essenziale e delicata, viva e toccante, a tratti sentimentale senza però essere sdolcinata, a tratti triste senza mai essere desolata o lagrimosa, spesso con tocchi di humour e momenti di poesia. Una scrittura che coglie gli istanti e va dritta al cuore dei lettori tutti, siano essi donne, siano essi uomini. Cambiare l’acqua ai fiori è giustamente il libro più letto degli ultimi mesi, un meritato successo, un successo reale, autentico, fatto con il “passaparola” dei lettori colpiti da questo bel libro uscito nel luglio 2019 e che proprio grazie al “passaparola” ha progressivamente scalato le classifiche italiane ed occupa ormai da settimane i primi posti fra i più venduti e, soprattutto, fra i più apprezzati. E’ un’opera seconda che conferma il talento di Valérie Perrin, (da anni attiva nel mondo del cinema francese come fotografa di scena, partner dal 2006 del grande regista Claude Lelouch ed anche cosceneggiatrice dei suoi ultimi film) che ha esordito con successo in Francia nel 2016 con “Il quaderno dell’amore perduto” di cui è ovviamente già in corso, in Italia, la ripubblicazione.
Questa volta la scrittrice ci regala un romanzo al cui centro è Violette (guardiana di un cimitero in una piccola città della Borgogna): un personaggio straordinario, una donna semplice, enigmatica e coraggiosa, rivolta verso la Vita nonostante tutto e tutti; una donna che ha conosciuto le durezze della Vita, il rifiuto, il lutto, il silenzio, un’infanzia segnata dall’abbandono, un matrimonio segnato dalla disillusione, un amore materno distrutto. Una donna che veste i colori dell’Inverno ma sotto porta però i colori ed il sapore dell’Estate. Attorno a lei, come dei satelliti o piccoli pianeti, gravitano tanti piccoli splendidi personaggi, uno spaccato di umanità, ognuno con le sue piccole storie, piccole cose della Vita, quelle tante sfaccettature della Vita che scorre intorno a noi. La tristezza, la gioia, la vita , la morte, le Estati, gli Inverni, le amicizie, l’Amore, gli amori mancati, gli amori persi, l’odio, il rancore e l’ostinazione perché nulla è mai veramente perduto…la resilienza…il possibile. Una moltitudine di emozioni: storie di vivi, di ricordi, di rimpianti, di speranze, di andate e ritorni nel passato e dal passato, in un intreccio di piani temporali e di Vite diverse tutte ben legate fra loro. Un equilibrio perfetto ed in armonia con i vari personaggi, tutti assolutamente autentici. Un intreccio in cui non ci si perde, che non ci lascia indifferenti, ma semmai, ci fa riflettere, piangere, ridere. Una storia ben articolata ed a tratti poetica che si fa quasi subito accettare ed amare e che tiene il lettore avvinghiato fino all’ultima pagina perché è una scoperta progressiva di elementi, di dettagli e di indizi.
Cambiare l’acqua ai fiori è una lettura da raccomandare, semplice ma autentica, un romanzo di fattura classica che si gusta con piacere: toccante e resiliente, una scrittura sensibile, poetica ed intimista. Un libro da non classificare assolutamente solo come un feel good book perché sarebbe banale, non corretto e riduttivo, al contrario, è un bel libro, vero ed autentico, di una scrittrice che usa magnificamente il Semplice ed il Bello. Un vero piacere!
data di pubblicazione:11/08/2020
da Daniele Poto | Ago 8, 2020
Non tragga in inganno il sottotitolo “Racconti all’ombra del Covid”. Fortunatamente non si parla di pandemia e ci astrae da quella ridda di racconti e/o romanzi a tema d’occasione, peraltro assai poco ispirati, che affollano edicole e librerie. Semmai il lungo periodo di confinamento è stato opportunamente usato dall’autore per stimolare e corroborare la propria fantasia e creatività secondo un piano di letteratura razionale che si è avvalsa degli strumenti del dialetto, dell’antropologia, dell’etnografia e della localizzazione. Non sembri troppo tutto insieme anche se lo sfoggio e la pratica di queste scienze a tratti minaccia di soffocare il primigenio getto ispirativo, la trama piana del racconto. Minuziosamente Castaldo diffonde latitudini, mappe, espressioni gergali do quei tanti dialetti italiani che si palesano come autentiche lingue, a partire dal napoletano. E ogni racconto è preceduto da un illustre riferimento, nomi grossi come Keroauc o Flaiano. Non tutti i confinamenti vengono per nuocere se producono prodotti bizzarri come questo, silloge di racconti “realmente accaduti nella fantasia dell’autore”. Perché Castaldo dialoga, quasi scherza con il lettore e scherza anche con è stesso, cercando di non prendersi troppo sul serio. Ma la letteratura rimane una cosa seria e i continui refrain allusivi che intercalano i vari plot sembrano un vezzo funzionale per la sua poetica che si appoggia a illustri consiglieri regione per regione. Così è un libro che parla molte lingue e abbraccia diversi registri. Una sorta di Giro d’Italia picaresco, a tratti inquietante con un sottofondo di evidente partecipazione giornalistica e cronachistica alle vicende dei vari personaggi. Il racconto che preferiamo è forse il più lungo e argomentativo, quello del professore campano che torna in regole al momento del pensionamento e fa rivivere un amore veneto mai definitivamente appassito. Qui il bozzetto acquista spessore, colore e un’intensità probante. Castaldo ha emendato i numerosi errori di bozze con una ancora più gustosa ripresa in seconda edizione.
data di pubblicazione:8/08/2020
da Daniele Poto | Lug 21, 2020
L’era del coronavirus ha spalancato al nostro tempo scenari impensabili. Il mondo di prima era dominato dalle feroci leggi dell’economia ma la crisi del 2020 rischia di far diventare questa scienza fallibile ancora più spietata e dominatrice della vita delle persone. Ecco che la letteratura riscatta la propria utilità sociale con un pamphlet che riassume la centralità della finanza nella determinazione dei destini. Monica Catalano, consulente finanziaria di lungo corso, offre in un agile volumetto l’abbinamento dell’economia con la storia del cinema. Lo specchio della fiction aiuta e mette a fuoco i fenomeni forse meglio della realtà ed è anche strumento piacevole per la comprensione della trasformazione del pianeta e delle sue leggi. Il sottotitolo è illuminante: dalla bolla dei tulipani al coronavirus. Circoscrive esattamente un andamento, determina la forbice cronologica del materiale trattato. Il denaro sterco del diavolo? Al di là della definizione apodittica si potrebbe scrivere che il denaro non regala felicità ma aiuta a vivere meglio. E la sua gestione è un gradiente fondamentale nel rapporto degli uomini. Le grandi rivoluzioni francesi o russe non sono forse scaturite da un bisogno impellente di cambiamento? E la crisi Lehmann Brothers del 2007-2008 non ha cambiato forse negli europei il modo di valutare la deperibile cultura americana, facendo vistosamente emergere i difetti strutturali delle bolle economiche? Lo strumento di lettura di cui si avvale la Catalano è suadente e stringente. Perché il cinema con l’uso dell’economia ci ha regalato grandi film drammatici come Wall Street o The Wolf, non a caso maturati nella grande industria statunitense. Un connubio forse nascosto e non così evidente è il rapporto tra produzioni cinematografiche e banche. Grandi film nascono da grandi capitali: successi e flop. Alternanze che fanno riflettere in un momento in cui poche sale cinematografiche hanno riaperto, Con l’economia che ancora una volta domina: nell’analisi costi/benefici se non c’è possibilità di guadagno gli esercenti preferiscono perpetuare il black out. Il cinema si adatta e cambia. Con i drive in, con la risorsa delle arene, con il recupero delle seconde visioni e persino con le sole parrocchiali di una volta. In un momento di sosta quasi antropologica questa agile pubblicazione ci aiuta a riscoprire il passato e una grande storia cinematografica fatta di capolavori e di passaggi nodali. Dal mondo incantato di Frank Capra, alla comicità di Totò fino alla crudezza di un titolo che è diventato un apologo: Too big to fail? Non è forse l’attualità rappresentata oggi da Atlantia o dall’Ilva di Taranto? Rebus anche il Governo, tra opposte interpretazioni.
data di pubblicazione:21/07/2020
da Antonio Iraci | Lug 17, 2020
In un agglomerato residenziale alla periferia di Roma, diverse famiglie interagiscono di comune accordo mentre i loro figli giocano a fare i grandi. Una voce fuori campo legge, dal diario di una bambina trovato casualmente, ciò che accadde in una certa estate quando, davanti alle palpabili frustrazioni di uno sparuto gruppo di genitori poco più che trentenni, i loro figli metteranno in scena una drastica protesta. Non è un atto di ribellione in sé, ma il loro netto rifiuto di entrare a far parte di una società che i loro stessi padri hanno reso così vuota e sterile.
I fratelli-gemelli D’Innocenzo, ancora reduci dal successo ottenuto nel 2018 a Berlino con il loro primo film La terra dell’abbastanza, realizzano un loro vecchio sogno tornando alla Berlinale nel 2020 con il lungometraggio Favolacce, vincendo l’orso d’argento per la migliore sceneggiatura e tanto altro ancora, in cui raccontano le proprie esperienze vissute nella periferia romana attraverso le vite e lo sguardo di alcuni bambini: “oramai ci troviamo in un’età intermedia dove non siamo più troppi giovani ma neanche troppo grandi e quindi non potevamo più aspettare a raccontare di quelle sensazioni che noi stessi abbiamo percepito da piccoli”.
Il film è uno spaccato sulla nevrosi tipica delle attuali piccole classi borghesi italiane, in un susseguirsi di insuccessi per la mancata realizzazione di sogni e stupide ambizioni che, inevitabilmente, vanno a riversarsi sui figli, vittime innocenti di questi abusi mentali. Sono loro che, proprio perché ancora lontani dai condizionamenti di un ambiente palesemente indecoroso, riescono a percepire istintivamente il malessere della società così come ci appare, attraverso i loro sguardi severi ed intelligenti, in tutto il suo squallore. Bisogna dare atto ai due giovani registi, appena trentenni, di aver saputo ben inquadrare l’intimo di ogni singolo piccolo protagonista, lasciando ad ognuno libertà di espressione, lontano da qualsiasi forzatura da copione. Ancora una volta il bravo Elio Germano, giusto in tempo per togliersi i panni di Antonio Ligabue nel film di Diritti Volevo nascondermi presentato anch’esso alla Berlinale e vincitore di una serie infinita di premi, in Favolacce è Bruno Placido che, insieme alla moglie Dalila (Barbara Chichiarelli), rappresentano un classico esempio di genitori contemporanei molto concentrati su loro stessi e poco attenti alla sensibilità dei figli, per mancanza di cultura oltre e di quella necessaria propensione verso chi sta sbocciando alla vita.
I registi rivelano ancora una volta un loro lato squisitamente umano tipico di un certo “popolino romano”, di cui non sappiamo se realmente ne facciano parte, ma che in questo film viene descritto in modo esemplare, dimostrando di aver raggiunto una genuina maturità necessaria a raccontare una favola piena di amarezza, che ha profonde radici nel reale tessuto sociale contemporaneo, con una potenza espressiva che agisce su dimensioni profonde, perché i contenuti sono espressi in un linguaggio cinematografico potente e sovversivo, sapientissimo ed al tempo stesso fuori dagli schemi. Il cinema italiano è vivo e può capitare che produca ancora opere d’arte: quando forma e contenuto coincidono, quando la verità della vita spinta agli estremi diventa visionaria e indecifrabile, quando radicalità e reticenza vanno di pari passo, il cinema raggiunge la sua grande potenzialità espressiva e si hanno opere come quella dei geniali fratelli D’Innocenzo (Alessandro De Michele).
Da non perdere… al cinema!
data di pubblicazione:17/07/2020
Scopri con un click il nostro voto: 
da Daniele Poto | Lug 8, 2020
Un’autrice di successo ha voglia di inanellare piccole storie dopo il boom del Premio Strega 2018. L’amore che c’è è sussurrato, coccolato, tenue. Non è un’esplosione di passione ma un sentimento rattenuto, dissimulato, difeso ma pur vivo ed esistente. Un autobiografismo discreto ma palpitante si affaccia nei dieci racconti dell’agile silloge in cento pagine, distillati di situazioni, ambienti che corrono parallelamente alla vita del Pigneto. E la Terranova, siciliana adottata da Roma, non manca di sottolineare la differenza antropologica, la mutazione del suo essere in una città sempre più cosmopolita capace di integrarti ma con il manifestarsi di qualche asperità e durezza. La Terranova si fa dunque esploratrice e vigile interprete di pulsioni sottotraccia, leggendo ed interpretando il sottotesto dei suoi personaggi e dei suoi scenari, pervasi di umanità e di esperienze personali, da portare alla luce dalla zona d’ombra in cui si trovano. Un libro inconsueto e non banale in cui la demarcazione dei racconti invita a una lettura meditata e non frenetica, come il ritmo invece a volte caotico della metropoli. Si sosta a Porta Maggiore che è luogo di transito e non di visione con l’ispirazione lasciata da Mariateresa Di Lascia. Dunque anche una pensilina, una lavanderia, un incontro fortuito, accendono stimoli e vibrazioni. La vita negli occhi degli altri, come specchio e occasione di serenità. Come entrare in un mondo privato che la rivelazione della letteratura, proustianamente, rende improvvisamente pubblico. Si ripete il piccolo miracolo della suggestione comunicativa che si rende seducente con la forma più che con il contenuto. Perché non c’è tanto da raccontare se non stati d’animo, percezione, impulsi di un mondo virato da una sensibilità tipicamente femminile. Un testo interlocutorio che completa il curriculum sempre più interessante e stringente di una delle autrici più stimolanti della generazione di mezzo.
data di pubblicazione:08/07/2020
da Rossano Giuppa | Lug 7, 2020
Dal 2 luglio Il Teatro di Roma ha riaperto alla città, agli artisti e al pubblico, offrendo una Stagione estiva straordinaria denominata Verso il ritorno proprio per tornare a essere luogo da vivere con il pensiero, l’incontro, le prove e lo spettacolo.
Il Teatro Argentina, con ingressi limitati a 200 posti, si trasforma in un luogo di produzione e coinvolgimento, dove la musica si intreccia al teatro e al racconto: si è iniziato iI 2 luglio con le note di Shadows. Le memorie perdute di Chet Baker, titolo del diario di una vita scritto dal jazzista ritrovato dieci anni dopo la sua morte, che il trombettista Fabrizio Bosso, il pianista Julian Oliver Mazzariello e la voce di Massimo Popolizio interpretano e rileggono. Felice ritorno anche per il regista siciliano Davide Enia, che riporta in scena Maggio ‘43, una drammaturgia che scompone, intreccia e rielabora le testimonianze del massacro di Palermo il 9 maggio ’43, con i bombardamenti che distrussero la città prima dello sbarco degli Alleati (26 luglio ore 21) oltre alla replica del pluripremiato L’abisso, in scena nella programmazione estiva del MAXXI, in collaborazione con il Teatro di Roma (17 luglio ore 21). Il Laboratorio Integrato Piero Gabrielli, nato in occasione della Giornata internazionale dell’Infermiere, che raccoglie in un testo teatrale vissuti e testimonianze di chi era in prima linea nei giorni dell’emergenza presenta lee prove aperte della prossima produzione del Teatro di Roma, con sei attori, Uomo senza meta, per la regia di Giacomo Bisordi (15 luglio ore 21) e la drammaturgia di Arne Lygre, una microsaga familiare, dissezione anatomica dei nostri sentimenti in tempi di neoliberismo trionfante e crudele favola politica (30 e 31 luglio ore 21). Ad accompagnare il programma estivo, tutti i sabati di luglio (4, 11, 18 e 25 ore 19) Musica dalle finestre, concerti all’aperto dalle finestre dell’Argentina, dedicati ad autori del ‘900 con il sax protagonista, in collaborazione con l’Orchestra di Roma Tre.
Il Teatro India si fa arena estiva all’aperto – con capienza massima di 154 posti – per accogliere il pubblico nei suoi spazi esterni, portando in scena alcune tra produzioni e ospitalità della stagione teatrale interrotta dall’emergenza pandemica: i corpi in rotazione di TURNING_Orlando’s version di Alessandro Sciarroni, una danza che rimanda a una trasformazione circolare ed esplora il lavoro in punta della danza classica (9 e 10 luglio ore 20); il ‘jukebox-umano’ in carne e voce di Monica Demuru che dà vita ai materiali sonori raccolti tra Roma, Prato e Cagliari per il solo site-specific Jukebox di Encyclopédie de la Parole (16 e 17 luglio ore 21.30); il congegno drammaturgico e sonoro, sospeso tra dialogo teatrale e indagine letteraria, dei RedReading di Bartolini/Baronio, in cui il teatro incontra la potenza dei libri in un esercizio di vicinanza, con un doppio appuntamento: FEROCEMENTE VIVI_scavando a mani nude, intrecciando fili (dal libro Al centro di una città antichissima di Rosa Mordenti, 11 luglio ore 21.30) e UN GIORNO BIANCO_dove il noi dimora in me (dal libro Ho costruito una casa da giardiniere di Gilles Clément 18 luglio ore 21.30).
Gli artisti di Oceano Indiano – DOM-, Fabio Condemi, Industria Indipendente, mk, Muta Imago, con la collaborazione per l’occasione di Daria Deflorian – ricominciano a irrorare il teatro in presenza, iniziando a lavorare ad un nuovo formato radiofonico, questa volta più fisico, performativo e collettivo, Cronache Fluviali, che in quattro weekend – 3-4, 10-11, 17-18, 24-25 luglio, ore 18.30-21.30, di cui solo primo weekend non prevede pubblico – e in quattro capitoli – Partenze, Navigazioni, Avvistamenti, Mare Aperto – traccerà una peregrinazione sonora di ascolti musicali, field recording, interviste, interventi lungo le sponde del Tevere, partendo dal Teatro India e arrivando fino al mare. L’estate di India si conclude con un affaccio nel programma di Oceano Indiano, di cui andrà in scena Pezzi anatomici di mk (dal 28 al 30 agosto), una serie di aperture coreografiche in cui fare convivere luogo della visione e luogo della ricerca.
L’arena del Teatro India ospiterà la settima edizione del Festival Dominio Pubblico_La Città agli Under 25, una piattaforma immaginativa per le nuove generazioni che prova a ricreare una comunità intorno al teatro e alle arti (24, 25, 26, 30, 31 luglio e 1 agosto); inoltre, Fuori Programma, che propone uno sguardo sul paesaggio delle più interessanti e recenti produzioni coreografiche e della danza contemporanea, a cura di Valentina Marini (28, 29 e 30 luglio). Ad accompagnarci verso la fine dell’estate, lacasadargilla con il suo trasmettitore spaziale millenario IF – Invasioni dal futuro che invia immagini, suoni e storie tratte dalla migliore letteratura di fantascienza (dal 24 al 30 agosto).
In queste prime fasi di riapertura il Teatro di Roma torna ad affacciarsi sulla città in una concatenazione di prospettive e punti di vista differenti, alla ricerca di una connessione ancora più forte e trasversale con chi la abita. Ad anticipare la stagione, nascerà a fine agosto il Cantiere dell’immaginazione, un ciclo di incontri aperti al pubblico e tavoli di lavoro rivolti a cittadini di tutte le generazioni e realtà differenti attive nel territorio. Una chiamata pubblica in cui il Teatro si mette a servizio della città offrendo un tempo e uno spazio per creare connessioni, tracciare nuove lingue comuni, condividere nel modo più ampio possibile un pensiero di costruzione del fare cultura a Roma. Nel frattempo, prende il via il Cantiere Amleto o della gioventù usurpata, condotto dal direttore artistico Giorgio Barberio Corsetti e da Massimo Sigillò Massara, negli spazi all’aperto del Parco di Tor Tre Teste al Quarticciolo.
data di pubblicazione:07/07/2020
da Giovanni M. Ripoli | Lug 3, 2020
Predestinato a primeggiare nelle classifiche dei libri più venduti in tutto il mondo è in libreria il nuovo romanzo del giovane talentuoso e fortunato autore svizzero. Ma qualcosa non va…
“Quando si vuole veramente credere a qualcosa, si vede solo quello che si vuole vedere”. Così nella quarta di copertina del nuovo robusto (632 pagine) romanzo dello scrittore ginevrino, autore di alcuni dei più clamorosi casi editoriali degli ultimi anni. Si potrebbe dire che dopo qualche iniziale difficoltà a farsi pubblicare (è lui stesso a raccontarcelo) non abbia mai sbagliato un colpo. La Verità sul caso Harry Quebert (2013), fu un successo planetario, ma anche i successivi, Il Libro dei Baltimore (2016) e La Scomparsa di Stephanie Mailer (2018) furono “best seller”, probabilmente a ragione.
Dickert ha la capacità di costruire ingranaggi quasi perfetti, sa descrivere i personaggi, sa muoversi, come il più scaltro e consumato dei registi, su piani temporali diversi, passato e presente, romanzo nel romanzo, cambi di ritmo continui che intrigano lettori di ogni latitudine. Evidente, quindi, che ogni sua novità venga accolta con entusiasmo. E’ accaduto, sta puntualmente accadendo, anche con, L’Enigma della camera 622 (già il più venduto in Italia e Francia), comprato a scatola chiusa e inevitabilmente destinato al successo.
Confesso di essermi entusiasmato per i precedenti romanzi di Dickert, ho giudicato La Scomparsa di Stephanie Mailer il suo migliore, ma…de gustibus…, mi sono pertanto fiondato nella lettura del suo ultimo robusto e complesso enigma. Aggiungo che fino a pagina 470 circa, quasi tutto è filato, as usual, a meraviglia. Il “quasi” è legato a un certo fastidio legato ad una certa ostentazione dell’autore nel raccontarsi romanziere di successo, ma, ci può stare. Come sempre, tutto procedeva a meraviglia”: c’era una storia, un delitto, un ambiente, meticolosamente descritto, personaggi dalla doppiezza giusta, c’era un Lui con l’aiuto di una Lei a investigare. Poi, qualcosa si è inceppato… Volutamente non vi sto raccontando la trama per due ragioni, primo perché è comunque “un giallo”, secondo perché dalla pagina che indicavo la trama subisce uno scarto improvviso (in negativo) che a mio giudizio porta il racconto dalle parti del Diabolik delle ottime sorelle Giussani…e non aggiungo altro. Magari non tutti troveranno scellerato “il colpo di teatro” dell’autore come il sottoscritto, ma, onestamente, tutto l’andamento finale del racconto è, diciamo, un tantino sopra le righe. Lascio ai lettori l’ardua sentenza e mi aspetto una versione cinematografica o seriale come da copione.
data di pubblicazione:3/07/2020
da Antonio Jacolina | Giu 29, 2020
La Atwood è una gran signora della letteratura internazionale, di gran successo ed anche di gran talento, autrice, fra l’altro, dell’ottimo L’Assassino Cieco (2000) e ovviamente de Il racconto dell’Ancella (1985). Il suo stile è sempre fluido, la prosa sempre gradevole ed espressiva, una penna veramente bella ed elegante. L’autrice ci regala un nuovo bel romanzo, un racconto forte, potente ed intenso che torna a parlarci del mondo distopico già immaginato 35 anni fa nel libro che la rese famosa: Il racconto dell’Ancella. Chi non ha già letto questo libro o non ne conosce la storia? se non altro per aver visto l’omonima serie televisiva o averne almeno sentito parlare per i risvolti e le speculazioni politiche e sociali che ha messo in moto la sua pubblicazione.
C’era proprio bisogno di un suo seguito dopo 35 anni? Forse sì forse no, certo, forti devono essere state le pressioni dei tanti lettori, forti quelle editoriali, forti le spinte derivanti dalle evoluzioni/involuzioni della realtà politica di questi anni … la Distopia stava, in effetti, quasi divenendo realtà! La Atwood ha però avuto l’intelligenza di non lanciarsi in un banale seguito, troppo tempo è infatti passato dall’uscita del primo romanzo! Più che di “seguito” sarebbe infatti più corretto parlare allora di “sviluppo”. Il libro del 1985 è stato e resta un unicum a tutti gli effetti per intensità emotiva e per forza di impatto, assolutamente ineguagliabile ed irripetibile. Si tratta quindi, a ben vedere, di due romanzi ben distinti per qualità e spessore anche se basati sulla stessa base storica. Pur ritrovando le stesse situazioni, il tono ed il racconto sono ovviamente diversi.
Siamo 15 anni dopo nella realtà distopica immaginata, cambia il soggetto narrante, questa volta tre testimonianze femminili, complementari fra loro, raccontano da diversi ruoli sociali e da diversi punti di vista, gli ultimi giorni della terribile teocrazia, basata sulla purezza dei costumi e sulla sottomissione delle donne, che ha preso il potere in parte degli Stati Uniti. Quindi, non più lo studio psicologico e claustrofobico di una donna asservita e che sognava la libertà che dava vigore e spessore al primo romanzo, ma, al suo posto, un brillante studio sociologico del mondo creato dalla fantasia visionaria e premonitrice della scrittrice. L’utopistica Società di Gilead dietro la cui apparente facciata di virtù puritane collettive si nascondono le peggiori turpitudini e diseguaglianze individuali.
Mentre nel primo libro il fascino era nella visionarietà, nell’ambiguità e nel non definito, ne I Testamenti tutto è invece ben più definito, il lettore sa che l’incubo è fallito e ciò toglie indubbiamente parte del fascino del mistero, ma restano ancora tutte le emozioni e la forte umanità dei personaggi e la loro progressiva presa di coscienza. La Atwood, l’abbiamo già detto, è una narratrice senza pari e la sua scrittura conferisce vigore e forza alle situazioni ed ai caratteri anche se nella narrazione c’è un’ovvia riduzione dell’originalità, alcune ridondanze e vari sviluppi narrativi più formali che sostanziali. Ciò non di meno il libro è buono e resta una lettura piacevole, coinvolgente e scorrevole che è stato giustamente premiato da critica e pubblico, ma che, sia ben chiaro, non può, né tanto meno intende o suppone di riproporre le emozioni di cuore e di mente già suscitate tanti anni fa da Il Racconto dell’Ancella.
data di pubblicazione:29/06/2020
da Antonio Jacolina | Giu 24, 2020
Commentavamo, appena pochi giorni fa, come sia una Festa per gli appassionati di Simenon l’uscita di un suo libro, sia pure un’operetta minore come in effetti è “La Linea del deserto”. A maggior ragione dobbiamo oggi fare una grande Festa perché il 18 Giugno, graditissima sorpresa, è uscito, fresco di traduzione, per i tipi Adelphi un bel romanzo del 1936. Un vero Roman Dur o Roman Roman, come amava definirli l’autore stesso, appartenente, per periodo ed ispirazione, proprio a quella stagione creativa dello scrittore belga che ha dato i migliori frutti letterari. Quindi, uno di quei romanzi in cui, come abbiamo già annotato in precedenza, Simenon osserva magistralmente e freddamente da par suo, quasi fosse un antropologo, le umane vicende, le pene dell’esistere, tutta la durezza della realtà quale che essa sia, per raccontare cosa sia avvenuto, perché sia avvenuto, e, soprattutto, cosa ciò che è avvenuto abbia poi causato e determinato nell’esistenza delle persone da lui osservate. Il Destino ed il Caso segnano le vite degli esseri umani anche oltre le generazioni e, per Simenon, il Destino ha un potere ineluttabile, non ci si può mai sottrarre al suo volere nonostante e per quanto ci si possa sforzare e quale che sia il tempo trascorso.
I Superstiti del Télémaque è dunque un “romanzo duro”, un libro duro come duro è l’antefatto drammatico nel 1906 del naufragio del Télémaque con i terribili sospetti di cannibalismo a carico dei 4 sopravvissuti fra i 6 naufraghi costretti in mare su una scialuppa per giorni senza viveri, come duro è l’ambiente marinaro descritto e dure le regole non scritte ma rigorose che governano sia la piccola comunità di pescatori di Fecamp sia le piccole realtà familiari. Una vicenda tenebrosa ed allucinante pervasa di sospetti, di lutti non sanati, di rancori e dell’odio feroce dei parenti dei naufraghi morti. Ci sono dei morti, c’è l’uccisione, trenta anni dopo, dell’ultimo dei sopravvissuti al naufragio e c’è anche un probabile colpevole, ma è solo un pretesto, tutto quel che conta per Simenon non è tanto conoscere il movente dell’accusato né tantomeno se le indagini personali condotte dal fratello del sospettato conducano o meno verso il vero colpevole. L’interrogativo che lo scrittore si pone e pone anche ai lettori è capire quali siano le posizioni ed i ruoli che ciascuno dei suoi personaggi ha nel suo piccolo mondo, nella propria piccola cittadina delle coste della Normandia, nella propria ristretta cerchia, e fare, nel contempo, un’analisi minuta della pesantezza dei vincoli familiari, degli affetti fraterni, degli odi e dei rancori e del diritto alla vendetta. L’autore con il suo stile asciutto ed essenziale ci regala una galleria di personaggi: avvocati, giudici e commissari di provincia, armatori e marinai… una umanità piccola, piccola travolta da una forza superiore: il Destino. L’acutezza dell’analisi psicologica con cui ce li descrive tutti: i loro caratteri, i loro sentimenti, i loro ambienti, sia quelli principali sia quelli secondari, li rende così vivi ed autentici da aspettarci quasi di incrociarli per strada anche noi .
Veramente un bel romanzo di atmosfere, piacevolmente retrò, molto coinvolgente, ma, insolitamente per Simenon, dal ritmo un po’ lento, pieno di meandri, come del resto infiniti sono però proprio i meandri dei tipi umani osservati dallo scrittore. Un libro da divorare e che non si riesce a lasciare se non quando lo si è finito di leggere, anche se non si è appassionati di Simenon.
data di pubblicazione:24/06/2020
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