BUONISTI UN CAZZO di Luca Bottura, Feltrinelli, 2020

BUONISTI UN CAZZO di Luca Bottura, Feltrinelli, 2020

Il gusto della battuta non è quello della barzelletta. E il fluviale Luca Bottura, autore infinito per Bertolino, Cucciari, Littizzetto, in passato per Gnocchi, Crozza, Cornacchione, Celentano (tenete presente, non è tutta farina del loro sacco) ha tentato un passo lungo ma probabile. Un libro che è un condensato di umori fertili, il filo rosso di una narrazione molto personale, quasi un livre de chevet, sulla sua lunga parabola giornalistico-satirica. Percorso in cui le preferenze politiche sono dichiarate (l’idiosincrasia per i grillini ad esempio, vittima designata l’ex Ministro Toninelli al quale dedica spiegazioni particolareggiate). Dunque non una storia da romanzo ma tante storie, tanti frammenti a cui non si chiede di radicarsi in un impianto coerente. Dove la dispersività intrigante è un dono e non una diminutio. C’è il racconto di una lunga gavetta con la dolorosa esperienza a L’Unità, giornale tradizionale della sinistra la cui abdicazione è un po’ la metafora del tradimento di tutto un versante politico in cui riponeva tante speranze di futuro. L’autore ci racconta l’Italia che vede e che sopporta con l’occhio ironico ma non distaccato di un cronico disadattato e/o indignato. I buonisti? Sostiene che siano sempre meglio, con la loro constatata fragile identità, dei cattivisti in circolazione nel Paese, a partire dai pupulisti/sovranisti. Un libro a cui non si chiede particolari doti di coerenza quanto di brillantezza e di generosità autoriale. Dunque un manuale d’uso che è quasi una sorta di guida scapestrata ai tempi difficili che viviamo. Il testo abbonda di citazioni musicali e sportive (il Bologna calcio, la Fortitudo). I bersagli sono tanti (Marco Travaglio, ad esempio) ma il lettore non disquisirà sulle predilezioni quanto sarà piacevolmente risucchiato dal vortice carsico di affabulazioni satiriche. Le une sulle altre con effetto esponenziale. Un libro survoltato ma comunque non sopra le righe. Come si diceva una volta.

data di pubblicazione:05/11/2020

HOME, I’M DARLING di  Laura Wade, traduzione di Andrea Peghinelli, regia Luchino Giordana e Ester Tatangelo

HOME, I’M DARLING di Laura Wade, traduzione di Andrea Peghinelli, regia Luchino Giordana e Ester Tatangelo

(Teatro Belli- Roma, 30 ottobre/1 novembre 2020)

Nuova scena inglese con ammiccamenti a Pinter rimodellato nel nuovo millennio. Senza morbosità ma con una traduzione scoppiettante fedele a fornire un ritratto veridico della middle class britannica negli anni della crisi.

Lei è tutta casa e pranzetti, immedesimata nel proprio ruolo di casalinga che si scoprirà forzoso più che libera scelta (è stata convinta a dare le dimissioni da un brillante lavoro). Lui è zelante ma in crisi incapsulato in un matrimonio soffocante. Le cartine di tornasole che faranno detonare la stagnante situazione sono gli altri protagonisti della commedia in due tempi proposta con streaming a pagamento per la rassegna TREND, la nuova scena britannica, ovvero un’amica, la madre della padrona di casa, la capoufficio di lui. E, gradatamente l’atmosfera rosea delle prime scene diventa plumbea, anche di fronte a una possibilità di tradimento. Il chiarimento arriverà alla fine con un contraddittorio che sa molto di teatro, con dialoghi all’altezza, la viva complicità e partecipazione di attori assai in sinergia con il tema e debitamente affiatati. La scenografia di Francesco Ghisu mostra il fondale ideato da lei, una gabbia stretta. Il richiamo ideale agli anni ’50, compresi balli, televisore e frigorifero. Una cornice mortifera da cui solo l’evasione, come da un carcere è possibile. Rimbalzano nelle due ore e mezzo di spettacolo senza cali di tensione molte delle frenesie del tempo: l’emancipazione della donna, un femminismo non completamente digerito, il carrierismo, l’economia del dopo Thatcher, il sessismo. Qualcuno ha evocato Un Tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams anche se qui siamo lontani da esasperazioni e perversione. Un piccolo grande dramma domestico in via di risoluzione grazie all’amore che è fonte ispiratrice di due protagonisti che non vogliono perdersi. Un inno all’amore ma anche al teatro con questa originale proposta rivolta al pubblico online. Se non si può andare a teatro è il teatro che entra nei nostri schermi.

data di pubblicazione:03/11/2020


Il nostro voto:

LA CONSUETUDINE FRASTAGLIATA DELL’AVERTI ACCANTO di Marco Andreoli, con Claudia Vismara e Daniele Pili, con regia degli stessi attori

LA CONSUETUDINE FRASTAGLIATA DELL’AVERTI ACCANTO di Marco Andreoli, con Claudia Vismara e Daniele Pili, con regia degli stessi attori

(Teatro Vascello- Roma, 28/31 ottobre 2020)

La rarefazione estenuata dei rapporti di copia. La ripetizione come logoramento nella vita coniugale. Una complessa trama di abitudini, luoghi comuni, attese non corrisposte alleggerite da una colonna sonora orecchiabile e tratti da music hall.

Teatro a domicilio per 48 attenti spettatori davanti allo schermo di un computer. Spettacolo dal vivo che per non morire si offre gratuitamente. Gli applausi, risate e i rumori di fondo affidati alla regia. Ma il freddo delle circostanze viene riscaldato dal calore drammaturgico dell’opera. Un testo certo non facile su cui la mini-compagnia ha lavorato per due anni vedendo sfumare in extremis la soddisfazione del debutto bruciata da un impietoso decreto legge. Il lavoro degli attori-registi trae ispirazione dai Multiversi di Hugh Everett. Si avverte una forte suggestione di fondo che teorizza l’esistenza di consistenti universi fuori dalle nostre coordinare spazio tempo. La dimensione parallela si sviluppa nel dialogo stentato dei protagonisti. Nel fondale di una cucina simil Ikea, con un televisore quasi perennemente acceso, si assiste a lacerti di una vita di coppia sfilacciata, a tratti insensata, invano riscattata da affettuosi soprannomi, da rituali di abbraccio che non riescono a dissimulare la profonda mancanza di intesa. Vari piani non simmetrici di racconto in 75 minuti di sviluppo che appare piano in capo a ottanta minuti di felice esibizione. Le parole sembrano infingimenti per riempire il vuoto comunicazionale. Vite senza direzione né programma. Persino una zuppa di porri se preparata in un giorno diverso dal giovedì può provocare sconcerto. Eppure, sotto traccia, la vita cambia e fa da sé e certi passo si rivelano decisivi, quasi irreparabili. Il personaggio femminile, un po’ in disparte nella prima parte, nella seconda cresce di tono e prende il sopravvento con la propria feroce determinazione, decise a uscire dalla gabbia della sopraffazione.

data di pubblicazione:30/10/2020


Il nostro voto:

I PREDATORI di Pietro Castellitto, 2020

I PREDATORI di Pietro Castellitto, 2020

Famiglia ricca snob contro famiglia cheap e malavitosa. Materia già vista con Virzì e ben più efficacemente trattata dal regista livornese. Opera prima supervalutata proveniente da Venezia. Castellitto jr. osa, esagera, strafà. Regista e anche interprete. Ma non è Woody Allen e l’eccentricità non deflagra in una trama coerente in una pellicola sfilacciata e davvero un po’ presuntuosa.

 

Opera prima che denota l’acerba immaturità del regista. Nella sua freschezza dovrebbe risultare un film con guizzi incoerenti ma la noia è in agguato nell’andamento circolare di un film in cui il personaggio di partenza (Marchioni) deve chiudere un finale tutt’altro che happy. Nel secondo tempo (difetto di montaggio?) il regista non sembra sapere dove collocare la macchina da ripresa e la pellicola gira a vuoto con dialoghi di rara banalità. Spiace trovare impegnati (e sprecati) nell’impresa Massimo Popolizio, il miglior attore di teatro nostrano al momento, e Dario Cassini comico reinventato in un improbabile ruolo grottesco. Molto meglio se la cava Manuela Mandracchia nella parte della regista virago assillata da mille turbe e da violenti scatti d’ira. Il film rimane un ibrido tra la commedia all’italiana e la ricerca di originalità a tutti i costi nella trama e nelle situazioni. Troppa carne al fuoco non governata con materia centrifuga. Il giovane regista-attore si ritaglia una parte distopica che però non emoziona né tanto meno strega. Un’altra occasione perduta dal cinema italiano in un’annata davvero grama, soprattutto se a confronto con la cinematografia d’oltre oceano. Anche in questo caso il trailer illude e rimane una delle cose migliori come condensato di un film con troppe vie di fuga da uno sviluppo coerentemente lineare. Naturalmente la critica embedded (controllare sul web) mostrerà di aver visto un altro film, complice l’effetto-Venezia, a volte miracoloso.

data di pubblicazione:26/10/2020


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UOMO SENZA META di Giacomo Bisordi /Arne Lygre, regia di Giacomo Bisordi

UOMO SENZA META di Giacomo Bisordi /Arne Lygre, regia di Giacomo Bisordi

(Teatro Argentina – Roma, 17/25 ottobre 2020)

Scrittura norvegese fedelmente riportata su un palcoscenico italiano. Sentore di Ibsen in dialoghi sempre spezzati, allusivi e metaforici. Largo uso degli spazi e degli oggetti. Un esperimento che attizza la curiosità anche se non centra un risultato pieno e indiscutibile.

Nella strana stagione dei teatri quello di Roma si cimenta con un assemblaggio che potremo definire sperimentale. Forse in altri tempi, di maggiori certezze, una proposta come quella di Lygre, mediata da Bisordi, non sarebbe arrivata in cartellone. Novanta minuti per un tentativo tutt’altro che facile e di difficile metabolizzazione. La roba, i soldi, la materialità sembrano circoscrivere un mondo abbandonato dal protagonista che ha varato una città modello e dopo trent’anni di creazione e gestione, muore lasciando conflitti insanabili tra il fratello. La misteriosa sorella (solo di lui), l’ex moglie e una figlia venuta dal nulla. I personaggi si agitano, si spogliano e si rivestono e sono disposti a qualunque compromesso pur di non rinnegarsi. Non a caso l’ex consorte è disponibile a una allusiva fellatio finale pur di conquistare buste di denaro. C’è un gioco di inscatolamento del teatro dentro il teatro. Perché tutti potrebbero essere delle figurine messe in mostra dall’architetto solo apparentemente deceduto. Non a caso la battuta che ricorre più frequentemente in scena e: “Non sto recitando!”. Come si intuisce non è facile la metabolizzazione di una possibile storia lineare perché qui domina l’ambiguità e la ferinità dei comportamenti. Il pubblico, tutt’altro che numeroso, sembra sommamente gradire. C’è il disegno dell’’utopia e c’è anche il misterioso destino di esseri umani che sembrano aver delegato il proprio senso nel mondo a qualche altro. Lygre fa uso di una scrittura minimalista e graffiante. Un’occasione per scoprire al suo meglio un autore molto rappresentato nei teatri europei.

data di pubblicazione:21/10/2020


Il nostro voto: