da Paolo Talone | Gen 10, 2020
(Teatro Quirino – Roma, 7/19 gennaio 2020)
Due straordinarie attrici, Giulia Lazzarini e Anna Maria Guarnieri, che per talento – anche comico – e decennale esperienza sulle scene sono le protagoniste assolute della brillante commedia di Kesserling, resa celebre da Frank Capra.
Nel cocktail a base di rosolio – fatto rigorosamente in casa da mani amorevoli – Abby e Marta, le due anziane sorelle di casa Brewster, aggiungono piccole dosi di cianuro, stricnina e ovviamente arsenico. La bevanda micidiale viene servita agli ospiti a cui affittano le camere di casa loro, generalmente signori senza famiglia, che vengono così aiutati a morire con un sorriso sulle labbra. Un gesto di immensa cortesia e generosità secondo la pazza visione delle due donne. Lo confessano senza alcun problema al loro caro nipote Mortimer, appena giunto per comunicare alle zie la bella notizia dell’imminente matrimonio con Giulia, figlia del Reverendo Stone. In barba alla moda dei nostri giorni che condanna anche la più banale intenzione di fare spoiler, sappiamo fin da subito che a uccidere il povero Clinton Brown – il cui cadavere giace nella cassapanca in attesa di sepoltura – sono state proprio le candide, innocenti e dolcissime sorelle Abby e Marta Brewster. La vicenda si spoglia così della tinta del giallo, che svela solo all’ultima pagina il nome dell’assassino, per vestire i panni di un’esilarante commedia. Rimane però il contorto intrico dei fatti, tipico del genere, che crea una serie di divertenti equivoci di cui unico testimone è il pubblico. Gli oggetti di scena servono al racconto e sono parte fondamentale del gioco drammatico di questo tipo di commedia: la scarpa del morto, la borsa degli attrezzi del dottor Einstein, la tromba e i soldatini di Teddy, la bottiglia di rosolio. Personaggi tra i personaggi, potremmo dire, in una scena – l’interno di casa Brewster con affaccio romantico sul cimitero – ricostruita in stile neogotico, in perfetta armonia con le atmosfere del testo. Una specie di casa degli orrori dove mistero e tensione sono parte integrante del divertimento. La macchina è complessa e difficile da seguire (due ore e quindici minuti di spettacolo senza intervallo), ma la precisione della regia e l’eccezionale bravura di Giulia Lazzarini (Abby) e Anna Maria Guarnieri (Marta) mantengono viva l’attenzione sui fatti, che si sbrogliano con gradevole fluidità, come se fossimo davanti alla proiezione di un film. Merito certamente anche della professionalità degli altri attori della compagnia, tra cui spicca per particolare espressività e carattere Paolo Romano nel ruolo di Mortimer.
data di pubblicazione:10/01/2020
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Dic 27, 2019
(Teatro Quirino – Roma, 23 dicembre 2019/6 gennaio 2020)
Teo è una donna a cui piace vivere stando lontana dagli uomini. Il desiderio di diventare mamma però è un’altra cosa e per fortuna viene a soccorrerla la possibilità della fecondazione artificiale.
Nancy Brilli è una simpatica Teodolinda, per gli amici Teo. Vive sola e senza alcun tipo di relazione, specialmente con gli uomini. È una pittrice di gran talento e il suo autoritratto appeso alla parete ci dice che non c’è altro centro nella sua vita che sé stessa. Gianni (Igi Meggiorin), il suo vicino di appartamento, timido e impacciato con le donne, lavora presso un laboratorio dove si pratica l’inseminazione artificiale. L’occasione fa la donna, in questo caso, ladra e approfittando di una visita in laboratorio Teo ruba la provetta numero 668 grazie alla quale riesce a rimanere incinta. Il desiderio però di conoscere l’identità del padre la spinge, attraverso un inganno, a estorcere dalla bocca dell’ingenuo Gianni il nome del donatore, che scopriremo essere Osvaldo Menicucci (Daniele Antonini), un tronfio, baldanzoso e donnaiolo ragazzotto romano, che vive ancora con la madre siciliana Carmela (Fioretta Mari). L’interesse di Teo per Osvaldo non è affatto finalizzato alla conquista sentimentale, bensì a un’analisi attenta per accertarsi del buono stato di salute dell’uomo e prefigurarsi come potrà essere caratterialmente il bambino, o la bambina, che nascerà. Tuttavia, le sue certezze – anche se per poco – verranno seriamente minacciate. Le scene comiche si moltiplicano e l’intreccio si complica, ma alla fine – colpo di scena – tutto prenderà una piega inaspettata: ogni attore che ha preso parte nella storia sarà chiamato, come in una grande famiglia allargata, a prendersi cura della crescita libera e sana del bambino.
Per chi ha avuto modo di conoscere la versione degli anni ‘80, dal vivo o grazie a una registrazione, con Ombretta Colli nei panni della protagonista, noterà che il nuovo adattamento ha delle differenze rispetto all’originale, soprattutto nelle musiche, nell’assenza di alcune scene, e nell’aggiunta del personaggio di Markus, con la kappa (Nicola D’Ortona), alter ego maschile di Samantha, con l’acca (Giulia Gallone), modelli entrambi per le storie a fumetto di Teo. La commedia musicale, giudicata assai moderna già trent’anni fa quando usciva la prima volta, dimostra di non aver perso spessore e interesse. Merito certamente della grande regista Lina Wertmüller, premio Oscar alla carriera, che di relazioni tra uomini e donne e di temi sociali è maestra. Se a renderla attuale sono di sicuro i dispositivi elettronici usati dai personaggi per comunicare tra loro (telefonini e account social) o per lavorare (Gianni usa un octapad per comporre la sua musica) non di meno svolgono questa funzione alcuni accenni a tematiche attuali di interesse sociale. Uno fra tutti la denuncia dell’assenza in Italia di una legge per fecondazione assistita a favore delle coppie omosessuali, che la regista risolve senza troppe parole, nel fugace attimo di una battuta. Ma a rendere attuale la pièce è senz’altro una caratteristica insita proprio nella stessa: l’assenza di moralismo. Nelle battute, così come nei personaggi, non è mai espresso un giudizio o peggio ancora un pregiudizio sulle cose o sulle scelte: tutto è trattato con estrema leggerezza e rispetto e risolto con grande e raffinata ironia. Ecco perché è una commedia da riconsiderare e senza alcun dubbio andare a vedere.
data di pubblicazione:27/12/2019
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Dic 23, 2019
(Teatro Belli – Roma, 20/21 dicembre 2019)
Spettacolo di chiusura della rassegna TREND 2019 – nuove frontiere della scena britannica – La psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane, con Mariateresa Pascale. Una sinfonia concertata per voce sola, sulle note dell’ultimo Mahler e P. J. Harvey.
Qual è l’essenza ultima del teatro? Cosa si cela dietro il gesto della creazione artistica? Fino a dove può spingersi un autore? Cos’è lo spazio scenico? Queste e tante altre domande nascono guardando questo spettacolo, reso con una regia e un’interpretazione che spingono al ragionamento e al ricordo del senso del sacro nel teatro, così come può essere stato pensato in origine dai greci. Sarah Kane consegna nelle mani della sua agente letteraria il testo, 4.48 Psychosis, poco prima di morire. A un anno di distanza dal suicidio, avvenuto il 20 febbraio del 1999, viene rappresentato la prima volta. TREND ce lo propone come spettacolo di chiusura della ricca e interessante rassegna di quest’anno. È un testamento, certo, ma anche un inno alla bellezza e alla sacralità del gesto artistico, che coinvolge tutti: autore, attore, regista fino allo spettatore seduto in sala. È un’immersione nell’universo della creazione, che prende forma soprattutto dall’intensità e dall’assurdità del dolore, in questo caso dalla depressione dell’autrice. Consegnando lo scritto alla sua agente Sarah Kane afferma infatti “scriverlo mi ha uccisa.”
La violenza incredibile, sorda che esplode sul palco comporta rispetto e ammirazione. Lo spazio scenico appare per questo inviolabile e inaccessibile. È comprensibile quindi che i dialoghi con lo psichiatra si svolgano a distanza, con Enrico Frattaroli nei panni dello stesso che recita dalla balconata del teatro. Nessuno tranne lei – la voce solitaria della poesia – può salire sulle tavole del palcoscenico, nemmeno l’attrice che a fine recita prende gli applausi dalla platea anziché dal proscenio. Si sta come in contemplazione del sublime dell’angoscia della mente, come davanti alla visione di un insetto che si dimena morente incollato a una trappola di gelatina appiccicosa. L’esecuzione di Mariateresa Pascale – che preferisce un registro da contralto – non tradisce emozioni o inutili sentimentalismi perché è così che parla una mente malata, inserendosi a perfezione nel triangolo espressivo di voce, immagini e musica che la regia orchestra.
Termina così la XVIII edizione di TREND, che ha saputo proporre quest’anno testi di grande spessore, innovazione e interesse. Felici di aver partecipato insieme a un pubblico attento e variegato – soprattutto per l’età – ci diamo appuntamento al prossimo anno.
data di pubblicazione:23/12/2019
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Dic 20, 2019
(Teatro Belli – Roma, 17/18 dicembre 2019)
Da quando una grossa multinazionale ha acquistato il Forth Bridge, Pop Sheeran è andato in crisi. La questione del referendum dell’indipendenza della Scozia dal Regno Unito coniugata sul racconto di Gogol Le memorie di un pazzo.
Appeso al ponte ferroviario di Forth Bridge, nel sud del Queensferry in Scozia, c’è sempre stato uno Sheeran. I maschi della famiglia si occupano della manutenzione della struttura da generazioni, quindi Pop passa tutto l’anno a ridare la vernice al ponte. Arriva però il momento in cui la tradizione deve cedere il passo all’invenzione e alla tecnologia, così Pop è costretto a far posto sul ponteggio a Matt White, uno studente che studia ingegneria a Edimburgo, originario della (nemica) Inghilterra, che gli propone di usare una vernice innovativa destinata a durare più a lungo. Per di più il ragazzo viene ospitato in casa Sheeran su proposta della moglie Mavra e, come se non bastasse, vive una relazione con la diciassettenne figlia della coppia, Sophie, conosciuta per caso al bar dell’università. Un bell’intreccio, non c’è che dire! Nel dramma del cambiamento Pop Sheeran appare come una vite che gira a vuoto e non riesce più a tenere insieme le parti: da un lato il dovere di mantenere il suo lavoro nella ditta di famiglia, dall’altro l’orgoglio identitario e nazionale di scozzese che sente di difendere. Siamo a un passo dal referendum per l’indipendenza, che vedrà come esito un debole risultato del 55 per cento a favore del no: la Scozia continuerà a far parte del Regno Unito. La vicenda rappresenta tutta la confusione e il disorientamento di questo momento dove Pop è l’eroe sconfitto: inutile lo sforzo di proporsi e vestirsi come il nuovo William Wallace di Braveheart, di cui Mel, l’amica del cuore di Sophie, ne confeziona il costume. La strada che prende lo porterà solo alla pazzia, espressa con scespiriano lirismo, di cui è sintomo l’apparizione di Grayfriars Bobby (il cane simbolo della capitale scozzese che passò parte della sua vita fino alla morte a guardia della tomba del padrone defunto) che lo incita a combattere per la buona causa della separazione. Gli elementi narrativi sono tanti e rendono complesso il racconto, ma la regia e l’ottima interpretazione di Marco Quaglia (Pop Sheeran) sbrogliano con eleganza e fluidità la difficile matassa delle situazioni. Di grande aiuto la scenografia essenziale e l’espediente di proiettare sul fondale – come i cartelli del teatro epico – il nome dei luoghi dove si svolge l’azione. Un testo un po’ fuori dalla nostra comprensione forse – le vicende politiche oltremanica ci emozionano in parte – ma tuttavia una buona prova di recitazione per i giovani attori della compagnia.
data di pubblicazione:20/12/2019
Il nostro voto: 
da Paolo Talone | Dic 16, 2019
(Teatro Belli – Roma, 14/15 dicembre 2019)
L’amicizia tra due donne, Grace e Lorna, dura da quando erano piccole; le rispettive mamme si conoscevano già ancor prima che nascessero. Il racconto della loro storia fino a che non si interrompe per la prematura scomparsa di Grace.
Grace (Livia Antonelli) indossa una felpa poco femminile di colore viola, mentre Lorna (Dacia Dacunto) un maglione giallo che la copre fin sopra le ginocchia. Nella teoria dei colori giallo e viola risultano complementari, ovvero sommati insieme come luci danno il colore bianco, l’unità perfetta. Forse per caso o per scelta voluta risulta così per Lorna e Grace: due ragazze che non possono fare a meno l’una dell’altra, così diverse tra di loro, che insieme sembrano invincibili. Come nel romanzo di successo della Ferrante, L’amica geniale, Lorna e Grace sono migliori amiche fin da bambine, ma crescendo la storia le divide. Trascorrono in un piccolo paese di periferia fanciullezza e adolescenza tra giochi e primi amori: Grace deve badare al padre malato, trova presto lavoro in fabbrica e nel frattempo rimane incinta di Marta, mentre Lorna – tra le due l’unica ad aver visto Londra almeno una volta – ha la possibilità di studiare e di emanciparsi di più rispetto all’amica. Passano trent’anni durante i quali però si ritrovano sempre, anche quando le cose sono difficili, violente, ingestibili e non condivisibili. Tra loro sembra esserci un confronto continuo che spesso si trasforma in una lotta fisica, ma essere veri amici comporta anche questo. La struttura della narrazione frammenta il tempo in una miriade di situazioni in cui le amiche convivono e si raccontano mille avventure. Sullo sfondo la presenza sfumata, quasi nemica, di tanti uomini dai quali è necessario fare squadra per difendersi (tutti interpretati da Livio Remuzzi). La scelta del regista unisce invece lo spazio, l’entrata di una vecchia miniera di carbone nei pressi della cittadina dove crescono, retaggio di un tempo passato dove si stava economicamente meglio, da cui escono nel carrello su rotaie i ricordi sepolti di una vita custodita gelosamente. Out of love è questa miniera di memorie, questo scrigno che contiene la ricchezza di un’amicizia unica.
data di pubblicazione:16/12/2019
Il nostro voto: 
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