MARIA REGINA DI SCOZIA di Josie Rourke, 2019

MARIA REGINA DI SCOZIA di Josie Rourke, 2019

Ancora una volta torna al cinema la tragica vicenda umana e politica di Maria Stuarda (Saoirse Ronan) giovane vedova del Re di Francia, Regina di Scozia nonché pretendente al trono d’Inghilterra in contrasto con la cugina Elisabetta I (Margot Robbie). Una rivalità fra donne e regine e, nello sfondo, il più ampio conflitto fra le fazioni cattoliche e protestanti sia inglesi che scozzesi nella seconda metà del 1500.

 

In attesa dell’ormai prossima uscita dell’attesissimo La Favorita del geniale ed irriverente Y. Lanthimos, grande favorito ai prossimi Oscar, complice anche un pomeriggio di pioggia, non abbiamo saputo resistere alla fascinazione di questo classico che non tramonta mai ed alla voglia di pregustare il sapore degli intrighi delle corti e dei palazzi reali, scozzesi od inglesi che siano.

La quarantenne J. Rourke apprezzata regista teatrale inglese, debutta oggi dietro la cinepresa affrontando coraggiosamente e con maestria un tema ed una storia già portata sugli schermi cinematografici per ben 8 volte. Restando fedele alle sue origini ed avvalendosi di un buon adattamento curato da B. Willimon, l’autore di House of cards, la regista costruisce un dramma molto classico che, oltre che sul conflitto di potere fra due regine, si centra soprattutto sul confronto fra due donne, due donne autorevoli in un universo però dominato dal maschile e dal patriarcale. L’autrice, adattando la storia ai nostri tempi, quasi una metafora dell’attuale, si focalizza essenzialmente, in una loro contrapposizione costante, sul diverso ruolo delle Regine e delle donne nelle due diverse corti reali e nella Società dell’epoca in genere. E’ la storia di due donne forti ed indipendenti che cercano, al loro meglio, di gestire e mantenere il loro potere, incapaci però di conciliare le proprie personali discordie con le strategie, gli intrighi politici che le circondano.

La regia segue con fluidità e giusto ritmo narrativo la vicenda delle due sovrane, quasi in parallelo, in una continua lotta a distanza fatta tutta di congiure e tradimenti, allorchè poi la narrazione diviene troppo ricca concorrono a farle da valido sostegno le ottime interpretazioni delle due protagoniste, fino al culmine narrativo del loro faccia a faccia finale fra rivalità ed affascinazione reciproca di vere combattenti. Un incontro questo mai avvenuto nella realtà, ma un “falso” ormai diventato “storico” in tutte le trasposizioni, per accentuare la tensione drammatica del racconto.

Entrambe le attrici sono vincenti. La Ronan si consacra definitivamente come ottima attrice, capace di esprimere con naturalezza affascinante tutti i sentimenti e la sensualità della regina di Scozia. Alla sua altezza è la Robbie che dopo l’exploit di Tonya si conferma come un sicuro talento.

Di contro la regista, pur senza essere innovativa, dimostra di avere una buona mano, la messa in scena è elegante, ma talora l’approccio è solo estetico, un po’ freddo e senza coinvolgimento, quasi didascalico, ed allora il ritmo narrativo diviene incostante. Nuoce soprattutto al film, quasi snaturandolo oltre misura, l’insistenza di voler rendere troppo moderna la vicenda, finendo così con il darci più un ritratto emotivo che non un ritratto storico dei rapporti fra le due regine. Di qui poi una serie di forzature, di libertà ed inaccuratezze storiche ed anacronismi eccessivi che a nulla giovano e che invece sicuramente deluderanno ed irriteranno gli appassionati di Storia o della Verità storica. Viste le precedenti celebri trasposizioni e interpretazioni sarebbe ben difficile per il nostro film distinguersi, per cui dovendo escludere, gioco forza, ogni confronto, Maria Regina di Scozia, va visto non certo come un capolavoro, ma solo come un film più che onesto, ben curato, elegante e ben recitato. Un film con alcuni difetti, ma comunque un film da poter senz’altro vedere, apprezzare e godere per poi passare oltre, in attesa, fra qualche anno, di una nuova trasposizione.

data di pubblicazione:22/01/2019


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VAN GOGH –  SULLA SOGLIA DELL’ETERNITÀ di Julian Schnabel, 2019

VAN GOGH – SULLA SOGLIA DELL’ETERNITÀ di Julian Schnabel, 2019

“Dio è natura, e la natura è bellezza” in queste parole pronunciate da Van Gogh (Willem Dafoe) è riassunto tutto il significato e la vera chiave di lettura con cui il cinquantenne e talentuoso regista americano Julian Schnabel ha inteso rappresentare il rapporto con la natura del pittore olandese negli ultimi tormentati ma anche fruttuosi anni della sua vita. Anni spesi tutti fra le campagne di Arles nel sud della Francia, alla ricerca ossessiva della giusta luce e del giusto sole per i suoi paesaggi, fra gli incontri scontri con Gaugin e fra continui ricoveri e dimissioni dal nosocomio di Saint Remy.

 

Schnabel si è affermato giovanissimo con un film su un altro pittore maledetto, Basquiat nel 1998, ha poi vinto ai festival di Venezia e di Cannes fino all’Oscar come migliore regista nel 2008 con il suo Lo scafandro e la farfalla. Appassionato ed apprezzato pittore oltre che regista, l’autore ci racconta, con cognizione di causa e dichiarata empatia, tutte le difficoltà dell’essere pittore, del dipingere la Natura, la ricerca dell’attimo di follia sottostante l’esplodere della scintilla creativa/artistica. Come da sua dichiarazione resa durante l’ultimo Festival del Cinema di Venezia, il suo intento era proprio di centrare il suo racconto sul “significato e sul tormento dell’essere artista”. Il film può quindi essere tutto qui, non siamo però davanti ad un classico biopic, anzi siamo ben lontani, forse anche per qualità, da quelli che lo hanno preceduto: Brama di vincere del 1956 di V. Minnelli, con un indimenticabile K. Douglas, e dal più recente Vincent e Theo del 1998 di R. Altman, e poi ovviamente, lontanissimi dalle tante produzioni più o meno divulgative od artistiche sul pittore olandese che unitamente al nostro Caravaggio, per drammaticità delle loro vite, per l’eccezionalità della loro Arte e per l’amore degli appassionati, condivide il record di essere al centro di innumerevoli documentari o fiction in tutto il mondo.

È quindi proprio e solo sulla vicenda dell’essere artista di Van Gogh che si sofferma il regista cercando di renderci con passione e partecipazione gli aneliti della sua anima, la sua sensibilità, l’affannosa ricerca creativa, la complessità ed il tormento della sua fragile personalità. Schnabel si fa però prendere proprio da questa sua passione, da questa sua empatia, tenta di trasmetterci quanto prova l’artista, ed ecco allora che la macchina da presa viene volutamente usata quasi come un pennello, come a voler restituire allo spettatore la follia visionaria del pittore. Abbondano quindi primi piani prolungati, ci sono inquadrature sfuocate, dissolvenze, camera a mano che accompagna l’artista nel suo camminare, quasi pellegrino, fra le campagne ed i boschi alla ricerca dell’attimo e dell’apparizione del Paesaggio, dell’Infinito e dell’Eternità. Ne risulta così, a tratti, quasi danneggiata anche l’intensa e vibrante interpretazione di Dafoe, supportato da un pregevole cameo di una splendida Emmanuelle Seigner. Purtroppo questo eccesso di mentalismo e le contraddizioni di cui sopra rallentano ed appesantiscono il giusto ritmo del film ed incidono fin troppo sul modo di raccontare, riducendo brio ed incisività. Dunque, uno Schnabel sempre autoriale e buono, ma molto lontano dalle eccellenze cui ci eravamo un po’ abituati.

data di pubblicazione:03/01/2019


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IL GIOCO DELLE COPPIE di Olivier Assayas

IL GIOCO DELLE COPPIE di Olivier Assayas

La storia di due coppie: un editore che deve far fronte alla rivoluzione digitale che investe il mondo della scrittura e dell’editoria, sua moglie attrice di successo (Juliette Binoche), uno scrittore autobiografico, depresso, e la sua compagna (Nora Hamzawi). Un quartetto e, con loro, i loro amici intellettuali parigini, tutti indistintamente, ciascuno a modo suo, in preda a dubbi e perplessità sulle loro scelte di vita e professionali davanti ai cambiamenti che sono costretti a subire e che non sono più in grado di controllare.

 

Film che ho perso alla recente Mostra di Venezia e che ho inseguito poi sui nostri schermi romani. Ma … lo dico subito, una delusione! Assayas è un regista e sceneggiatore francese con oltre 20 anni di carriera e discreti successi, suoi i recenti Sils Maria (2014) e Personal Shopper (2016) accolti entrambi positivamente sia da critica che dal pubblico di cinefili. Questa volta l’autore cambia registro e fa un’escursione nel mondo dell’editoria per parlarci dei mutamenti in atto come spunto per poterci poi parlare anche delle conseguenze dei mutamenti di costume nelle relazioni di coppia. Tutti sono doppi, tutti i personaggi hanno delle doppie vite e dei doppi fini (ben più corretto il titolo originale Double Vies, perché non mantenerlo? Vecchia questione questa dei titoli originali mal tradotti o fuorvianti), di cui il regista ci svela progressivamente segreti, ipocrisie e compromessi. Tutto è doppio: nelle vite, nelle coppie, nei libri autobiografici, nella realtà e nella politica. Il tema è certamente interessante, per l’autore non c’è una verità assoluta, tante infatti sono le possibili messe in scena della vita e tutte sono contraddittorie. Il regista avanza dubbi e domande riflettendo sulla cultura, sulla società che si evolve e sul fallimento della politica e delle utopie. Temi interessanti, ma risultati non certo all’altezza. Tanto pretestuoso è infatti lo spunto di affrontare il mondo dell’editoria, tanto pretestuoso, banale ed aneddotico è poi lo sviluppo filmico che ne consegue. Una specie di divertissement molto radical-chic, tutto intellettuale e fine a se stesso, un giochino che potrebbe, forse, riuscire a toccare le menti degli spettatori, ma non certo le loro emozioni.

Il Cinema francese, si sa, è da sempre un cinema molto “parlato” ove il linguaggio, le parole hanno un ruolo fondamentale, significativo e talora poetico, ma, nel nostro film i personaggi parlano, parlano e parlano senza mai arrivare ad alcun punto, il punto forse è solo il parlare ed il continuare a parlare. Se intenzione di Assayas era poi di voler prendere in giro una certa borghesia parigina persa fra cene e salotti intellettuali in cui si dibatte di argomenti di moda solo nel loro mondo esclusivo, il risultato è, ancora una volta, scarso perché poco convincente, privo del necessario mordente, di raffinatezza ed intelligenza. Al contrario, anche il discorso dell’autore si avvita su se stesso e sul piacere narcisistico di ascoltarsi parlare.

Un po’ poco, un po’ troppo poco direi io, da un autore come Assayas. Il film mostra fin dall’inizio tutti i suoi limiti, sarebbe forse bastato limitarsi ad accennare, invece il regista tende a sottolineare ed ancora a sottolineare cosicchè la storia inizia dopo poco a girare a vuoto, perdendo ogni mordente, salvo che lo spettatore voglia appassionarsi ai dibattiti fra intellò durante le varie cene, tutti eguali e tutte eguali.

Una storia povera, una quasi pigrizia di scrittura e sciatteria di riprese che lascia fin da subito perplessi. Un film decisamente non riuscito nonostante la buona interpretazione della Binoche e della Hanzawi e qualche lampo di humour, o piuttosto, di sarcasmo. Speriamo solo che Assayas torni presto ad essere all’altezza di se stesso con molte meno chiacchiere e più impegno

data di pubblicazione: 26/12/2018


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COLD WAR di Pawel Pawlikowski, 2018

COLD WAR di Pawel Pawlikowski, 2018

In un arco di tempo fra il 1949 ed il 1964, nella Polonia Staliniana, nella Parigi Bohémienne e nell’Europa divisa dalla Guerra Fredda, Wiktor (Tomas Kot) musicista polacco, alto borghese, colto e raffinato, incontra la giovane Zula (Joanna Kulig) di origini modeste ma passionale e talentuosa cantante con un pizzico di follia. Si innamorano per sempre, Wiktor di lì a poco fugge all’Ovest, ma l’amore li unisce, si perdono, si ritrovano. Un amore impossibile e distruttivo. Due innamorati che pur amandosi non riescono a poter stare insieme.

 

Dopo IDA, Oscar 2015 quale miglior film straniero, ecco di nuovo sui nostri schermi il talentuoso regista polacco con un film già premiato a Cannes per la migliore regia ed appena poche settimane fa, con l’ EFA (gli Oscar europei) come miglior film europeo 2018. Pawlikowski ci conferma tutta la sua maestria autoriale con un’opera visivamente impeccabile, con una regia, movimenti di camera, inquadrature e uso dei primi piani assolutamente originali e magistrali. Cold War è fotografato in un elegante bianco e nero che rende affascinanti le atmosfere della tormentata storia d’amore. Un bianco e nero contrastato, drammatico ed a tratti denso e velato per renderci l’alone di spaesamento della realtà narrata ed il grigiore della vita quotidiana ed anche l’interiorità tormentata dei due protagonisti smarriti nel loro amore. Il film è in effetti la storia di un amore tormentato ed appassionato, un amore assoluto, viscerale ed autodistruttivo, così tumultuoso, intenso e disperato che i due innamorati non riescono quasi a sopportarne il peso e si autodistruggono essi stessi pur non riuscendo a smettere di alimentare il sentimento che li unisce. Un amore così forte da tenere unite due anime che si riconoscono come destinate a vivere insieme, ma, non così forte da vibrare all’unisono e contemporaneamente quando le due anime riescono a viverlo. La storia fra i due è poi resa difficile ed è condizionata anche dalla situazione politica, dallo spaesamento derivante dalla lontananza dalla loro Polonia e, soprattutto dalla loro differenza di origini e cultura, dai loro forti temperamenti e dalle loro convinzioni. I due protagonisti sono materialmente lacerati fra il legame che li unisce ed il contesto che li separa. Una lacerazione sempre più distruttiva. Sullo sfondo della storia, solo sullo sfondo, malgrado il titolo, l’Europa che risorge dalle rovine della guerra mondiale, ma è già divisa, lacerata anch’essa dalla cortina di ferro della guerra fredda fra comunismo e libertà. Quasi una metafora. Il regista riesce ad esplorare le profondità di questa relazione impossibile rendendoci con assoluto pudore la purezza dei sentimenti dei protagonisti, la loro malinconia silenziosa e tutta la complessità di un legame che va ben oltre la loro stessa esistenza.

Il racconto si sviluppa per omissioni, condensato per elissi in soli 84’(evento raro oggigiorno, epoca di film lunghissimi), come sfogliando un album di foto, poche scene, brevi riprese, solo accenni di vita, lasciando poi allo spettatore ed alla sua immaginazione di ricrearsi ciò che succede alla vita ed ai sentimenti dei personaggi, nei lunghi spazi temporali che intercorrono fra un incontro e l’altro.

Il vero filo conduttore del film, quasi fosse un terzo protagonista, è la musica. Una musica che è sempre presente fin dalle prime inquadrature ed è l’elemento chiave per capire il racconto, in particolare la canzone “Cuori”, più volte cantata dalla protagonista in vari arrangiamenti, che di volta in volta affascina, lega o fa separare i due innamorati, anticipando nel suo testo tutto il senso della storia di questi due cuori attratti e contrapposti in un amore senza pace.

Volendo trovare dei difetti, a parte forse un certo squilibrio fra la parte iniziale e la storia d’amore, credo si possa rilevare che il regista non entri adeguatamente in profondità negli aspetti esistenziali dei suoi personaggi e si limiti invece a mostrarcene solo i segmenti di vita che li uniscono e poi li separano. Manca, a mio giudizio, un maggiore coinvolgimento, per cui alla fine il film risulta un’opera bella da vedere ma forse un po’ troppo fredda che coinvolge solo in superficie. Straordinaria ovviamente l’interpretazione dei due attori principali che rendono tutta la dolente sensualità del tormento delle anime e dei cuori dei loro eroi.

Cold War è un film drammatico sentimentale, un grande amaro canto d’amore, qualche critico lo ha anche definito “un film per cinefili o solo per Festival alla ricerca del capolavoro”, forse sì forse no, comunque sia, Cold War è un film da vedere che fa riflettere e su cui si deve riflettere e che forse andrebbe rivisto due volte per poter poi dire di aver già visto, fin da subito, un bel film.

data di pubblicazione:23/12/2018


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ROMA di Alfonso Cuarón, 2018

ROMA di Alfonso Cuarón, 2018

La cronaca di un anno tumultuoso nella vita di una famiglia borghese che vive nel “quartiere bene” di Città del Messico chiamato ROMA. Un anno visto con gli occhi umili e sensibili di Cleo, domestica attenta ma anche governante affettuosa e complice dei bambini e parte anche lei della famiglia.

 

Ho approfittato, prima del suo passaggio in esclusiva su Netflix, per correre a vedere proiettato sullo schermo cinematografico il film con cui Cuarón ha vinto il Leone d’oro al recentissimo Festival di Venezia e di cui ci aveva già riferito brevemente ma con acuta precisione di giudizio la nostra M. Letizia Panerai nei suoi Appunti di viaggio dal Lido di Venezia del 31 Agosto.

Non entro nelle polemiche sul ruolo di Netflix, o sui diversi atteggiamenti assunti dalle Direzioni dei Festival di Cannes e di Venezia sull’ammissibilità o meno in concorso di film destinati a circuiti diversi dalle sale cinematografiche. Personalmente sarei del parere che Netflix sia un danno per il vero Cinema, ma bisogna anche realisticamente convenire che i dissennati vincoli della Distribuzione avrebbero costretto un film come questo, pur se bello, solo in poche sale di qualità, limitandone la fruizione ad un numero ristretto di spettatori. D’altra parte occorre ammettere anche che il Cinema non è più solo arte, talento e fascinazione, ma è, sempre di più, un prodotto necessariamente destinato alla più ampia consumazione e quindi … la forza tentatrice della capacità produttiva e distributiva on line è sempre più irresistibile

Con Roma il talentuoso regista torna a girare nel suo Messico con un film molto personale che segna un ritorno alle sue origini sociali e culturali, alle sue memorie, ed ai suoi ricordi di infanzia. Ed è proprio con lo sguardo tenero e dolce della memoria che l’autore affronta temi tanto personali quanto anche universali: la famiglia, l’assenza, l’indifferenza, la maternità, la morte, il dolore, la dedizione e l’abnegazione, parlandoci anche delle lotte sociali, culturali e studentesche senza che mai uno di questi tanti temi ecceda sugli altri. Al contrario, tutti coabitano fra loro in modo naturale in un racconto fluido e con i giusti momenti di interruzione di tono, grazie anche a sequenze piene di humour. Il merito è tutto in una regia sensibile ed intensa che mantiene sempre appassionato il ritmo narrativo, con una capacità che sembra semplice ma è, in effetti, tanto elaborata quanto efficace. La messa in scena, in uno splendido “bianco e nero” privo di contrasti e di un’eccezionale profondità di campo, è sobria ed attentissima ai particolari fino anche ai dettagli. Il regista che, oltre a firmare la sceneggiatura ed a curare il montaggio, è anche Direttore della fotografia, privilegia piani fissi e soprattutto magnifici piani sequenza, che sono poi il suo marchio stilistico, per darci visioni panoramiche con movimenti della camera lenti proprio per evidenziare la visione d’insieme. Questo ritmo calmo, come se il Tempo si estendesse all’infinito, è scientemente ricercato per agevolare l’introiezione da parte dello spettatore del contesto, dei personaggi e dei loro comportamenti.

La vicenda ambientata nel 1970/71 è uno splendido souvenir di un mondo che sta cambiando, di una Società in ebollizione, di bambini che crescono, di adulti che affrontano la vita. Un’opera sensibile con personaggi disegnati con tocchi leggeri. Una visione realista senza giudizi di sorta da parte dell’autore, in una visione che quasi non cerca risposte alle vicende che si sviluppano siano esse allegre o tragiche, quasi una poesia del quotidiano.

Di sicuro il film è un canto, una vera ode alle donne, al loro grande coraggio, alla loro forza, alla loro resilienza, al legame naturale di solidarietà che consente loro di far fronte sia alle gravidanze non volute sia agli abbandoni subiti e di dare e avere sempre una speranza.

Dunque un film autoriale, delicato, elegante e di classe innegabile, un film che dà emozioni fin dalla prima sequenza di apertura. Un film da cercare di vedere assolutamente.

data di pubblicazione:14/12/2018


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