THE HATEFUL EIGHT di Quentin Tarantino, 2016

8 protagonisti, ottavo film di Tarantino, 888 presunti posti nella sala allestita nel Teatro 5 di Cinecittà. La sveglia presto di sabato mattina per assistere alla proiezione in 70mm e lingua originale (per tutto il mese di Febbraio, accorrete gente!), dopo breve momento “selfie” davanti alle sagome dei protagonisti o alla ricostruzione di un ipotetico scenario del film, con tanto di finta neve a terra, e bancone da saloon con macchine pop-corn al posto del whisky. Il popolo di Tarantino affolla il teatro, i Tarantiniani, in media molto giovani, conoscono le battute dei suoi film a memoria e lo reputerebbero un genio anche se si filmasse mentre fa colazione. Ci sono poi quelli che per mostrare simbiosi col regista e le sue scelte decidono di vestirsi a tema, in pieno stile western, con tanto di cappello, e forse, nascosto dietro le pieghe della giacca, un lazo. E poi i cinefili, gli appassionati, i curiosi. Immagino chi sta leggendo questa recensione: dai! Parlaci del film! Che ci importa del pubblico e di queste informazioni di contorno! Ma il pubblico è fondamentale, perché è il destinatario del racconto, è quell’auditorio di cui Tarantino ha bisogno, per collocarlo davanti al fuoco che scalda il rifugio in cui si svolge la maggior parte del film, e davanti a cui, sapientemente, Quentin sistema due poltrone. Non è un caso che una delle due poltrone venga occupata dall’anziano Generale Gen. Sanford Smithers, il volto di Bruce Dern, un personaggio che, come saprà chi ha visto il film, in fondo in fondo è più estraneo alla vicenda rispetto gli altri, è uno che passava di là,  la rappresentazione sullo schermo di colui che assiste ed ascolta. Per l’altro auditorio, quello che è in sala, Tarantino sfodera tutte le sue armi (mai termine più appropriato!): dipana una narrazione perfetta, si fa re dello storytelling, per usare un termine molto in voga, e lo fa attraverso una scrittura magistrale sotto tutti i punti di vista, in cui il racconto avviene per immagini (basterebbe vedere l’apertura del film, in sequenza, per una decina di volte, per essere già abbondantemente conquistati), ma anche attraverso i dialoghi (quel “Now my Nubian friend” pronunciato da Tim Roth/Oswaldo with a crisp British accent merita da solo l’Oscar!), la musica splendidamente congegnata da Morricone per dare risalto a ciò che la narrazione sta mettendo in campo e dei volti che sembrano nati solamente per poter incarnare un Magg. Marquis Warren (Samuel L. Jackson). L’intervallo interrompe la visione dopo due ore volate come due minuti, e dopo la pausa il narratore riprende le fila del racconto, ammicca al pubblico con la sua voce fuori campo, lancia un flashback e ci aiuta ad immergerci nuovamente in una storia che forse sappiamo già come andrà a finire. Ma non importa, perché alla fine saremo in grado di recitare a memoria una lettera scritta da Lincoln…ma questa è un’altra storia!

data di pubblicazione:5/02/2016


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