NOME DI DONNA di Marco Tullio Giordana, 2018

Nina si trasferisce insieme alla sua bambina in un centro della Lombardia non molto distante da Milano dove, su raccomandazione del parroco locale, riesce ad ottenere un lavoro in una residenza per persone anziane molto facoltose. Molestata dal direttore della struttura, la donna, confidatasi prima con il suo compagno e poi con una dirigente sindacale, riesce ad infrangere l’imperante muro di omertà e a portare l’uomo in tribunale allo scopo di difendere la propria dignità. L’impresa sin dall’inizio si presenterà molto difficile: le colleghe di Nina, anch’esse oggetto di molestia o addirittura abuso sessuale, pur di non perdere il proprio posto di lavoro scelgono di non esporsi.

 

Giordana non ama farsi chiamare maestro (come affermava Monicelli: maestro de chè?), in quanto per lui l’unico maestro era e rimane Federico Fellini. Nell’accontentarlo togliendo questa etichetta a lui scomoda, Marco Tullio Giordana rimane comunque un regista di grande spessore, che nelle sue pellicole ha sempre manifestato il suo impegno nel denunciare qualsiasi forma di sopruso o abuso esercitato da parte di chi detiene il potere e nell’abbattere l’omertà di chi il potere lo subisce. Nome di donna affronta il tema della molestia esercitata sul posto di lavoro nei confronti delle donne, spesso costrette a tacere pur di non perdere il lavoro, poiché ancora oggi l’autorità è prerogativa prettamente al maschile, sia nel sociale come nel privato. Nina (Cristiana Capotondi) ha imparato a cavarsela da sé nel crescere da sola una bambina, ed anche se ora riceve affetto dal suo compagno Luca (Stefano Scandaletti), disposto anche a mantenerla con il proprio lavoro pur di averla accanto, riesce tuttavia a difendere la propria indipendenza anche a costo di sacrifici ben noti per tutte le donne che lavorano. La violenza che lei è costretta a subire è di natura psicologica, pagando a caro prezzo il suo rifiuto e soprattutto la sua ribellione. Tra gli ospiti della lussuosa residenza per anziani dove si svolge la storia, troviamo Ines, una splendida Adriana Asti nella parte di se stessa, che messa al corrente di quanto sta succedendo afferma con un sorriso amaro che ai suoi tempi queste deplorevoli azioni venivano definite semplici complimenti. Il direttore Torri (Valerio Binasco) potrà contare sulla reticenza, o meglio protezione, di un uomo di chiesa, anche lui detentore di una bella fetta di potere all’interno della struttura, e che non esita a porsi in difesa dell’accusato pur di mantenere i propri privilegi.

Un film profondo dunque, che pone in risalto non solo la problematica delle donne, molte delle quali provenienti dai paesi dell’est, ma in genere di tutti quelli che quotidianamente subiscono una forma di maltrattamento, in qualsiasi modo perpetuata. Basato su un’ottima sceneggiatura, curata principalmente da Cristiana Mainardi, il film è un documento che dimostra quanto ci sia ancora da fare per arrivare a risultati sociali concreti, per la difesa da parte delle donne del diritto al lavoro e al rispetto della propria onorabilità. Nelle note di regia si legge: “inutile nascondersi dietro un dito, ognuno, uomo o donna che sia, sa benissimo cosa sta succedendo, sa qual’è il limite, la linea d’ombra. Chi la oltrepassa sa benissimo di violare un confine…”

Non a caso il film arriverà in sala l’otto marzo… sperando che ci rimanga a lungo.

data di pubblicazione:07/02/2018


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1 commento

  1. Marco Tullio Giordana, regista di grande sensibilità che ha firmato pellicole di assoluto rilievo che hanno fatto la storia del nostro cinema, ha purtroppo mancato una buona occasione con il suo Nome di donna. Il tema, seppur molto in “voga” in questi ultimi tempi, è al contrario un tema antico e niente affatto facile da rendere sullo schermo e Giordana, seppur in parte ci sia riuscito, non lascia tuttavia il segno con questa pellicola. Trovo che il senso di solitudine, di oppressione e di ricatto psicologico che gravano sul personaggio interpretato (non male) dalla Capotondi siano resi molto bene, così come la sua ribellione “a scoppio ritardato” che rende l’idea di come sia difficile metabolizzare una molestia, che ha il potere di spiazzarti anche se non è successo “il fatto”, che ti fa sentire in colpa anche se non hai alcuna colpa e che ti fa vergognare anche se non dovresti essere tu a dover provare tutto questo. Ma non è bastato a mio giudizio per farmi apprezzare il film di Giordana: nella seconda parte, e soprattutto nell’epilogo, si banalizza un po’ tutto a causa anche di un lieto fine davvero improbabile, con annessa scenetta finale che fa sembrare la molestia lo sport nazionale di tutti gli uomini-galli italiani, finendo così col ridicolizzare tutto ciò che è stato detto prima. Peccato: sono uscita dalla sala delusa ed anche un po’ arrabbiata.

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