HANNAH di Andrea Pallaoro, 2018

Una balena spiaggiata, tanti curiosi che assistono al “rassegnato” lavoro degli ambientalisti che tentano di mantenerla in vita continuando a bagnarla con acqua di mare. Hannah affretta il suo passo sulla spiaggia, vestita di tutto punto come per andare ad un appuntamento: guarda negli occhi il cetaceo morente forse nel tentativo di sentire cosa si prova nell’osservare una lenta agonia.

 

Il titolo originario dell’intenso film di Andrea Pallaoro doveva essere La balena, sostituito poi con il nome della protagonista, perché la scena del mammifero spiaggiato evoca la lenta deriva dell’esistenza di una donna che, all’indomani dell’arresto del marito o meglio consorte, perché da quel momento lei ne condividerà la sorte, vedrà la sua vita spegnersi lentamente. Ma quale colpa si cela dietro quell’arresto? Allo spettatore non è dato saperlo perché il film, almeno in apparenza, non fornisce spiegazioni “convenzionali”. Ciò che è dato sapere è che la protagonista tenta con tutte le forze di aggrapparsi alla sua routine fatta di piccole cose che tuttavia le sfugge di mano, attimo dopo attimo, senza che lei possa fare nulla per frenare questo processo. Il figlio non la vuole più vedere, i vicini la evitano, la piscina dove va a nuotare le revoca l’abbonamento, anche gli allievi che come lei frequentano un corso di teatro, suo unico diversivo, non le parlano mai, non le fanno mai un sorriso, non le rivolgono mai uno sguardo che la faccia sentire viva. Eppure le spiegazioni di tutto questo sono lì, davanti ai nostri occhi: le troviamo nascoste in una busta di fotografie, nei silenzi di Hannah, nelle parole pronunciate attraverso le pareti di casa dalla vicina, nel dolore soffocato di questa donna che porta sulle sue gracili spalle una colpa non sua, ma che la sta schiacciando.

Hannah è un film profondo ma non per tutti, perché l’assenza quasi totale di dialoghi genera stupore e smarrimento: lo spettatore può solo osservare ogni piega delle espressioni di questa donna, imparare ad ascoltare i suoi silenzi, guardare i suoi occhi.

Charlotte Rampling è Hannah: è lei il film ed è immensa. Tutto il resto fa solo da sfondo al suo dolore, alla sua solitudine, al suo lento crollo verso un’inevitabile deriva nata dall’isolamento in cui l’ha relegata quella piccola porzione di società, rappresentata dal suo mondo e dai suoi affetti.

Si consiglia la visone di questo film a chi vede nel cinema l’opportunità di provare sempre nuove emozioni, a chi ama affinare le proprie percezioni viaggiando nei meandri dello spirito umano, per visitare pieghe mai percorse prima.

data di pubblicazione:24/02/2018


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2 Commenti

  1. Ho letto con attenzione la recensione che conferma l’interesse suscitato a Venezia, ove la Rampling è stata premiata con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile proprio per questo film. Vorrei riuscire a vederlo. Il mio rammarico è che questi “piccoli film” che ci offrono ritratti intimi su cui poter riflettere, siano però strangolati dalla tirannia della ” Distribuzione” che ne limita tempi e luoghi di programmazione seguendo logiche che non sempre tengono conto della qualità

  2. Il film deve essere interessante e non me lo voglio assolutamente perdere. Come viene qui descritto mi incuriosisce l’aspetto sia umano che psicologico della protagonista ma soprattutto il perché genera tanta ostilità intorno a se’. da vedere e poi riflettere con calma …

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