FINAL PORTRAIT – L’ARTE DI ESSERE AMICI di Stanley Tucci, 2018

La sofferenza del processo creativo di un artista geniale, ma anche la sua fragilità emotiva e sentimentale. Il “ritratto” di Alberto Giacometti, tratteggiato con sapiente maestria da Stanley Tucci, è un affresco potente e, al tempo stesso, delicato di uno degli artisti più rappresentativi del secolo scorso.

James Lord (Armie Hammer, nelle sale anche per Chiamami col tuo nome), giovane scrittore americano in visita a Parigi, incontra Alberto Giacometti (Geoffrey Rush), pittore e scultore svizzero: la parabola umana di Giacometti sta volgendo al termine, ma la sua fama gode già di quel clamore che, consolidatosi nei decenni successivi, lo collocherà tra gli artisti maggiormente rappresentativi del Novecento.

Giacometti chiede a Lord di posare per un ritratto. Il giovane accetta con orgoglioso entusiasmo, ma ancora non sa quanto faticoso possa risultare il ruolo del “modello” di Giacometti. Come una bizzarra Penelope (così, sulle pagine di Accreditati, Kalibano), l’artista disfa continuamente quella che già sembrerebbe una pregevole opera d’arte. Il successo, del resto, è il terreno migliore sul quale coltivare i dubbi, anche se la perenne insoddisfazione di Giacometti diviene il motore più propulsivo della sua creatività artistica.

Accanto all’arte, c’è poi la vita privata di Giacometti. Il talento artistico è inversamente proporzionale alla maturità sentimentale ed emotiva: la sua musa ispiratrice è una prostituta (Clémence Poésy), ma Alberto non potrebbe fare a meno della moglie (Sylvie Testud) e del fratello (Tony Shalhoub), che lo supportano e lo sopportano con benevola comprensione. Il binomio “genio e sregolatezza” si trova ridotto a quello, più prosaico, “genio e fragilità emotiva”.

Con Final Portait, presentato fuori concorso alla scorsa edizione della Berlinale e tratto dal libro Ritratto di Alberto Giacometti scritto dallo stesso James Lord, il regista Stanley Tucci conduce lo spettatore nell’atelier bohémien di Giacometti e, soprattutto, tra le pieghe affascinanti e misteriose del processo creativo che guida la mente e le mani di un genio. Non si tratta di un biopic, come chiarisce il regista durante l’incontro con la stampa presso il cinema Quattro Fontane di Roma: un biopic rischia di ridursi a una mera carrellata asettica di fatti, mentre in questo caso è la “straordinaria quotidianità” dell’artista che emerge prepotentemente dallo schermo.

Geoffrey Rush è semplicemente perfetto mentre lascia correre le mani lungo le linee, ormai celeberrime, di quelle sculture filiformi fuori dal tempo e mentre riproduce la instabile emotività di Giacometti, all’inizio affabile e persino ironico, poi nevrotico, ansioso e depresso.

I movimenti di camera, mai eccessivi, conferiscono dinamismo all’immagine statica dell’atelier polveroso eppure splendente.

Una prova convincente, dunque, quella di Stanley Tucci e un film che certamente non lascia indifferenti.

data di pubblicazione: 9/2/2018


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