ČECHOV RADDOPPIA A ROMA

8 Nov 2015 | Accredito Teatro

(Teatro Quirino e Teatro Eliseo – Roma, 3/15 Novembre 2015)

Non sappiamo se sia accaduto per caso o per una programmazione studiata a tavolino, ma due opere di Čhecov sono approdate contemporaneamente sui palcoscenici romani nella prima settimana di Novembre e rimarranno in scena fino al 15. Si tratta de Il giardino dei ciliegi (traduzione di Gianni Garrega,  adattamento e regia di Luca De Fusco)  al teatro Quirino-Vittorio Gassman, e di Ivanov (traduzione di Danilo Macrì e regia di Filippi Dini) al teatro Eliseo. Ci è sembrato interessante mettere a confronto i due spettacoli che fin dalle brevi presentazioni sui pamphlet dei teatri, sembrano partire da assunti diametralmente opposti. Se per il Giardino dei ciliegi si legge che “sotto il chiacchiericcio apparentemente vacuo e frivolo della commedia si intravedono squarci di decadenza e di dolore che spesso hanno un sapore infantile”, per l’altro leggiamo che “l’Ivanov di Filippo Dini sfata la convinzione che la prima delle grandi opere teatrali di Cechov sia un testo noioso e polveroso […] creando una messinscena di coinvolgente passionalità e trascinante ironia”.

Lo squarcio di decadenza e dolore de Il giardino dei ciliegi viene addirittura reso scenicamente da una quarta parete costruita solo parzialmente, una cornice che lascia intravedere, nella sua apertura centrale, quasi una ferita, l’azione scenica. Contemporaneamente, quella stessa parete diventa supporto di proiezione dei primi piani, in bianco e nero, di quegli stessi attori che vi recitano al di là, rimandando nello spettatore le suggestioni degli sceneggiati televisivi di Anton Giulio Maiano. La lingua si tinge di una napoletanità che rende la vicenda “nostra”, e l’eco infantile aleggia sulle teste degli attori attraverso un aquilone e dei palloncini che vengono lasciati volare via come il passato, i sogni, l’infanzia felice. Le vicende personali dei protagonisti e quelle più grandi di un mondo in decadenza che essi hanno abitato e che ora devono lasciare, passano per il balletto della vita che apre la seconda parte dello spettacolo e di cui i rapporti e le vicende personali diventano coreografi. La luce, ora fredda ora calda, illumina il bianco gelido e antico degli abiti e di una casa con un giardino dei ciliegi solo evocato eppure destinato a scomparire. De Fusco sceglie in tal modo di cogliere e valorizzare sia gli aspetti naturalistici che quelli simbolici del testo, riuscendovi perfettamente anche grazie alle belle soluzioni scenografiche di Maurizio Balò e alla bravura corale degli attori, citando, su tutti, Gaia Aprea, Paolo Serra e Claudio Di Palma.

La coinvolgente passionalità e la trascinante ironia perseguite dalla messa in scena dell’Ivanov, interpretato dallo stesso regista Filippo Dini, passano per accenni ripetuti di arie di opere liriche canticchiate per sottolineare l’ingresso di un personaggio, dare il là ad un successivo scambio di battute. Dell’ironia si fa tramite l’amministratore Borkin (Fulvio Pepe) che accenna il ritornello di una canzone di Battisti (“A te che sei così presente..” da La luce dell’est…scelta casuale?), e la stessa  coralità delle scene che cambiano fisionomia a sipario alzato, attraverso un gioco di pareti che avanzano, retrocedono, restringono o dilatano lo spazio scenico, in un balletto sottolineato da una musichetta veloce come quella delle comiche. I colori accessi del divano e dei costumi della scena della festa di compleanno di Sasha, così come il ripetersi delle gag che ogni personaggio nuovo mette in scena per presentarsi, creano un’atmosfera grottesca che ci ha riportato alla mente  I tenenbaum e, più in generale, i film di Wes Anderson. Il tutto a far da contrasto allo spleen da cui Ivanov, il protagonista, sembra attanagliato. La morte della moglie, la decadenza della sua tenuta, i debiti, le sollecitazioni di un nuovo amore, del suo amministratore, del suo amico Lebedev (interpretato da Gianluca Gobbi) passano indifferenti sotto gli occhi del protagonista che vede solo la propria condizione di vittima della noia, di una frustrazione profonda, in un avvitarsi passivo della propria vicenda personale, che non gli permette di guardare che a se stesso, anche nell’unico gesto attivo che compirà alla fine: darsi la morte nel giorno del suo secondo matrimonio, bloccando gli altri personaggi in scena in un rallenty sottolineato da una musica in crescendo assordante. Un’inflessione dialettale piemontese in alcuni dei personaggi che non sappiamo se ritenere scelta stilistica, una messa in scena innovativa, con spunti interessanti che però, a nostro avviso, trovano un limite nella eccessiva ripetitività e insistenza degli espedienti comici, che suscitano un’ilarità anche esagerata ed esasperata  in uno spettatore forse troppo intento a voler contrastare la presunta “lentezza e pesantezza di Čechov” ( commento raccolto da più parti all’uscita dal teatro).

“Per vivere compiutamente il presente, bisogna fare i conti con il passato”. Questa battura presa da Il giardino dei ciliegi ci sembra il miglior modo per invitare gli spettatori che vogliano vivere compiutamente il presente del teatro a fare i conti con il meraviglioso passato rappresentato dall’eredità del teatro e dei testi di Čechov.

data di pubblicazione 08/11/2015

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