THE DANISH GIRL di Tom Hooper (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Venezia 72).

THE DANISH GIRL di Tom Hooper (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Venezia 72).

Il premio Oscar Eddie Redmayne sbarca al Lido di Venezia prestando i lineamenti muliebri e l’istrionico talento di attore al personaggio di Lili Elbe, che sottoponendosi nel 1930 a un intervento chirurgico per ricongiungere il corpo maschile all’anima femminile, diviene la prima riconosciuta transessuale della storia.

Tratto dall’omonimo romanzo firmato da David Ebershoff, The Danish Girl di Tom Hooper (Il discorso del Re, I miserabili) assume la consistenza di un affresco tanto dirompente quanto delicato di quella che, dall’inizio alla fine, resta un’intensa storia d’amore. Einar Wegener (Eddie Redmayne) e sua moglie Gerda (Alicia Vikander), entrambi pittori: lui ama dipingere paesaggi, esibendo un talento già ampiamente riconosciuto; lei preferisce dedicarsi ai ritratti, senza però trovare la sua reale ispirazione. Il gioco quasi puerile di posare per Gerda in abiti femminili diviene la scintilla in grado di far deflagrare una bomba già innescata da tempo nel cuore e nella mente del giovane artista. Einar adora truccarsi e atteggiarsi “come una donna” perché Einar “è una donna”. In un momento storico in cui la sua condizione si trova etichettata come anomalia biologica dalle mille diagnosi, destinata alla “cura” con trattamenti terapeutici invasivi o al confino nelle tenebre ghettizzanti del manicomio, la presa di consapevolezza di Einar-Lili non è né scontata né agevole. La proiezione socio-culturale della storia cede tuttavia il posto alla dimensione di intima transizione vissuta dai due protagonisti, che si prendono coraggiosamente per mano mettendosi in cammino lungo un sentiero forse doloroso ma indubbiamente doveroso. Il tutto incorniciato da una natura sontuosa e scandito da quell’arte pura e salvifica già comparsa al Festival in Francofonia e Marguerite.

Il tessuto narrativo si caratterizza per l’apprezzabile rievocazione di un’infanzia priva, per una volta, di traumi pronti a giustificare la “particolarità sessuale”, anche se, tralasciando il cliché dell’inversione dei ruoli all’interno della coppia (è Genda il vero “maschio” tra i due), il passaggio da una fase all’altra della complessa metamoforsi-rinascita del protagonista appare a tratti segnato da transizioni troppo bruscamente repentine per risultare del tutto credibili.

L’interpretazione di Redmayne, semplicemente perfetta nella sua sorprendente capacità di lasciar trasparire la vibrante emozione della progressiva presa di coscienza, è senza dubbio una prova da premio. Ciò che importa, precisa l’attore in conferenza stampa, è tenere distinto il “genere” dalla “sessualità”, secondo logiche e meccanismi che ha potuto imparare a comprendere attraverso il proficuo e generoso confronto con molti transgender, il cui aiuto si è rivelato prezioso per la preparazione del ruolo. Alicia Vikander si inserisce nel film con convinzione e indispensabile complementarietà. Nel cast anche Matthias Schoenaerts (tra gli altri Un sapore di ruggine e ossa) e Amber Heard, arrivata al Festival insieme al marito Johnny Depp.

Ancora una “storia vera” a fare sfondo al programma di Venezia 72. Ancora un film in concorso di cui (anche) il “grande pubblico” sentirà parlare nella prossima stagione cinematografica.

data di pubblicazione 06/09/2015








THE DANISH GIRL di Tom Hooper (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Venezia 72).

BEASTS OF NO NATION di Cary Fukunaga – USA (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Venezia 72)

Beasts of No Nation scrive un capitolo di indubbio impatto narrativo nel variegato “racconto della realtà” proposto dalla 72^ edizione del Festival della Laguna. Il piccolo Agu (Abraham Attah) vive con la sua famiglia in un villaggio dell’Africa occidentale. Si diverte a giocare alla “TV dell’immaginazione”, fino a quando l’irrompere della guerra civile lo deruba del suo sorriso, dei suoi sogni, della sua fede. Separato dalla madre e testimone della spietata esecuzione del padre, Agu, si imbatte in un gruppo di guerriglieri. Il carismatico e dispotico Comandante (Idris Elba) si offre di salvargli la vita, condannando in realtà la sua anima a una morte tanto lenta quanto inesorabile, ammantata dalla “divisa” sempre più appariscente di un intrepido bambino soldato. Un racconto duramente esplicito, che esalta il non senso della guerra seguendo la parabola del gruppo guidato dal Comandante e la metamorfosi che lentamente si disegna nello sguardo dello straordinario protagonista. Abraham Attah, in conferenza stampa, precisa di non aver provato paura, ma solo tristezza, durante la realizzazione delle sequenze più violente, la cui lavorazione, assicura il regista, è stata estremamente frammentata rispetto al risultato finale, anche al fine di tutelare gli interpreti più giovani. L’obbedienza che sconfina in un soggiogamento fisico e psichico, rafforzato dall’allucinazione delle droghe e in grado di guidare le non più innocenti mani dei baby guerriglieri nella commissione di atroci violenze e di peccati inconfessabili: anche se un giorno la guerra finirà, Agu non tornerà più il bambino che era.

Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Uzodinma Iweala, è divenuto un caso mediatico ben prima del suo approdo al Lido. Il regista Cary Fukunaga (Sin nombre, Jane Eyre) ha diretto la prima stagione dell’acclamata serie televisiva True Detective, confermando quanto proficui e trafficati siano di recente i canali di dialogo tra piccolo e grande schermo e restituendo a volte la sensazione di un’autentica inversione nei reciproci rapporti di forza e di autorevolezza. Il binomio cinema-tv è completato da internet, definendo i contorni di una triade che sta gradualmente dispiegando il proprio potenziale dominio sul mercato audiovisivo: Beasts of No Nation è infatti un film targato Netflix, colosso della tv in streaming, che si concede l’inedito lusso dello schermo della sala Darsena prima di confondersi tra i cristalli liquidi di qualche dispositivo portatile. In conferenza stampa il regista chiarisce che l’intervento di Netflix, avvenuto solo in fase di montaggio, non ha influito in maniera significativa sulla lavorazione del film. Riuscirà il cinema a cavalcare la virtuosa onda del web senza restarne travolta? Ai cineasti e al mercato l’ardua sentenza.

 

data di pubblicazione 03/09/2015








 

VOTO: CI HA CONVINTO

THE DANISH GIRL di Tom Hooper (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Venezia 72).

EVEREST di Baltasar Kormákur – USA (72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2015 – Fuori concorso)

Basato su una storia vera. L’indicazione che compare nell’incipit di Everest, film di apertura della 72^. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, lascia emergere quel fil rouge del Festival insistentemente evidenziato dal Direttore Barbera fin dalla conferenza stampa di luglio: il legame con la realtà, in grado di attribuire alla storia il crisma dell’emozione autentica, sia pur conferito in questo caso con i pregi e difetti dello stile hollywoodiano.

La “storia vera” che l’islandese Baltasar Kormákur sceglie di affidare alla trasfigurazione del grande schermo, datata 1996, è ambientata sulla catena dell’Himalaya: la “scalata organizzata” diviene una moda di lusso rivolta a un pubblico di alpinisti non professionisti, motivati a sfidare il rischio del non ritorno da ragioni che, sia pur muovendo dalle prospettive più disparate, finiscono per convergere verso un unico punto di fuga.

Due diverse spedizioni, guidate da Rob Hall (Jason Clarke) e Scott Fischer (Jake Gyllenhaal), si congiungono nell’ardito tentativo di condurre le proprie eterogenee squadre sulla vetta dell’Everest: 8.848 metri, la quota di crociera di 747, per provare a volare senza avere le ali. La risposta alla domanda “Perché?” non né automatica né scontata: si va perché si può, “testa bassa, passo dopo passo”, visto che in fondo conta più l’attitudine che l’altitudine e visto che, soprattutto, “now or never”. Il desiderio di superare i limiti imposti dalla biologica condizione di essere umano divengono una sfida con il proprio “io” inteso in una dimensione più ampia. Se però la poesia dello sport come specchio dell’introspezione individuale si incontra e si scontra con le logiche del mercato e del profitto, si rischia di finire in fila ai piedi del tetto del mondo come alle casse del supermercato di quartiere, smarrendo la capacità di comprendere fino in fondo il mistero della Natura e di fronteggiarne la conseguente Nemesi.

L’esibizione “iperrealistica” propria del 3D, unita all’assordante bufera del sonoro, conduce lo spettatore sui sentieri spettacolari della vertigine da capogiro, restituendo a tratti l’impressione di restare travolti dallo sferzante impatto dei cristalli di ghiaccio, mentre l’aria diviene sempre più insopportabilmente rarefatta.

C’è tanta Italia nel set di Everest: dalla Dolomiti agli Studi di Cinecittà, che compongono il mosaico insieme ai Pinewood Studios e reali paesaggi del Nepal.

Pur cedendo talvolta alle lusinghe del cliché del “genere alta tensione”, enfatizzato da una retorica melodrammatica pressoché inevitabile, Everest conferma le aspettative: un film di star e da botteghino, impreziosito da interpretazioni “minori” d’eccezioni, come quella di Keira Knightley, Emily Watson e Robin Wright; ma anche una riflessione sull’eterna e irrisolta storia di Icaro, sorpreso e “scottato” dell’ebbrezza del volo.

Data di pubblicazione 03/09/2015








RASSEGNA BIMBI BELLI – LA TERRA DEI SANTI di Fernando Muraca

RASSEGNA BIMBI BELLI – LA TERRA DEI SANTI di Fernando Muraca

(Roma, Arena Nuovo Sacher – 6/23 luglio 2015)

All’ombra di un pipistrello che disegna su un cielo torrido ma stellato la sua imprevedibile traiettoria di volo, scende nell’Arena del Nuovo Sacher La terra dei santi, “bimbo bello” di Fernando Muraca.

Dopo il successo di Anime Nere, torna sugli schermi la ‘ndrangheta. Un fenomeno criminale complesso e ancora in larga parte sconosciuto: il numero pressoché irrisorio di pentiti, dovuto non solo, come spiega il regista, al vincolo particolarmente stretto creato dal rito di affiliazione, ma soprattutto alla struttura familiare (in senso stretto) delle ‘ndrine, ha tenuto per molto lontana la mafia calabrese tanto dalle inchieste giudiziarie quanto dal cinema italiano.

La penna di Fernando Muraca e di Monica Zepelli (presente nell’Arena, di cui raccoglie il caloroso applauso quando Muraca ricorda il lavoro della stessa per I cento passi di Marco Tullio Giordana) tratteggia la ‘ndrangheta privilegiando una visione al femminile. “Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico”: le parole di Oriana Fallaci sintetizzano icasticamente i rischi ai quali si espone un’opzione narrativa di questo tipo, specie se cede alla tentazione di lasciarsi fagocitare dal comodo ricettacolo dello stereotipo cinematografico. Rischio ravvisabile, per quanto solo in minima parte, anche nella pellicola di Muraca.

La storia racconta le “vite parallele” del magistrato antimafia Vittoria (Valeria Solarino) e della donna di mafia Assunta (Daniela Marra, presente in Arena). Quest’ultima si sente costretta tra le sbarre della prigione dorata che la obbliga a sposare il fratello del marito ucciso e a partorire figli che andranno a rinforzare l’esercito della ‘ndrangheta. La linea dura di Vittoria, che, rievocando reali fatti di cronaca giudiziaria, arriva a chiedere la revoca della potestà genitoriale per donne che non possono definirsi “madri”, la costringeranno a fare i conti con scelte per troppo tempo rimandate. Il triangolo femminile è chiuso da Caterina (Lorenza Indovina), la donna del boss, disposta a gestire con il compagno latitante la regia dell’organizzazione. Modelli femminili diversi che si incontrano e si scontrano: da una parte la scelta della solitudine nella vita privata di Vittoria, che, senza marito e senza figli, in terra di Calabria è considerata al più una “mezza donna”; dall’altra il voto alla “famiglia” e alla “maternità” di Assunta e Caterina.

All’interno del triangolo si colloca felicemente l’agente di polizia interpretato da Ninni Bruschetta (presente in Arena), angelo custode tanto per Valeria Solarino quanto per Fernando Muraca, visto il prezioso supporto che il regista riferisce di aver ricevuto dall’attore nel corso delle riprese.

Muraca racconta di aver pensato subito a Lorenza Indovina per il personaggio di Caterina, viste le indubbie doti attoriali della stessa che hanno consentito al regista di lavorare su cambi di recitazione e di espressione tanto repentini quanto efficaci. La scelta di Daniela Marra ha invece richiesto oltre cento provini, per giungere infine a un’attrice giovane, non ancora famosa, dalla recitazione istintiva. Operazione riuscita. Non è un caso che nel dibattito successivo alla proiezione si parli pressoché esclusivamente di loro, mentre resta sullo sfondo il personaggio di Valeria Solarino, il più debole quanto a caratterizzazione e nel quale sembra ravvisarsi la tentazione allo stereotipo cui si faceva riferimento. Il regista conosce bene l’universo di sguardi e di omertà del quale si nutre la ‘ndrangheta e che ha sperimentato sulla sua stessa pelle quando la mafia ha distrutto l’azienda del padre. Tutto questo traspare chiaramente. Forse gli sceneggiatori conoscevano un po’ meno il mondo della magistratura e dell’antimafia, al quale si può “rendere giustizia” senza la necessità di dare corpo a eroine moraleggianti, guidate dalla sola missione di sconfiggere il Male. Nulla di particolarmente grave, se si considera che questo è un difetto di scrittura di molti dei film italiani che decidano di raccontare non solo l’assenza dello Stato (come avviene per esempio in Anime Nere), ma anche la sua difficoltosa presenza. Quello Stato che non è neppure in grado di fornire ai suoi funzionari delle penne cariche di inchiostro, come osserva Assunta in una delle battute meglio riuscite del film.

 data di pubblicazione 17/07/2015

BIMBI BELLI 2015 – IO STO CON LA SPOSA di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry

BIMBI BELLI 2015 – IO STO CON LA SPOSA di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry

(Roma, Arena Nuovo Sacher – 6/23 luglio 2015)

Nelle notti di un’accaldata estate romana, mentre i profili delle zanzare e dei gabbiani si stagliano al chiarore di una luna generosa, si accende lo schermo dell’Arena Nuovo Sacher con Bimbi belli – Esordi del cinema italiano. La rassegna, diretta da Nanni Moretti con la collaborazione di Valia Santella (sceneggiatrice di Miele e Mia madre), seleziona i più interessanti debutti registratisi nella stagione cinematografica appena conclusasi. Le scorse edizioni hanno premiato registi come Paolo Sorrentino (L’uomo in più, 2002) e Francesco Munzi (Saimir, 2003).

Il programma 2015 si apre con Io sto con la sposa, documentario che coniuga i tratti tipici del road movie con quelli del cinema sociale o, forse sarebbe meglio dire, socio-giuridico.

Antonio Augugliaro (montatore e regista), Gabriele Del Grande (giornalista) e Khaled Soliman Al Nassiry (poeta) decidono di reagire “a modo loro” alla carneficina consumatasi nelle acque a largo di Lampedusa con il naufragio del 2013. Offrendosi quale alternativa ai trafficanti di uomini, divengono i traghettatori via terra di cinque palestinesi e siriani, sopravvissuti al Mare nostrum e decisi ad approdare in Svezia, il Paese europeo più benevolo nei confronti dei richiedenti asilo. Il piano è all’apparenza tanto semplice quanto geniale: l’improvvisata carovana fingerà di comporre un corteo nuziale, sceglierà le vie meno battute dai controlli e, superando le frontiere invisibili che separano gli Stati europei, giungerà nella Terra promessa.

Il risultato è quello di un coinvolgente diario di viaggio, fatto di sofferenze e di speranze, di passato e di futuro, di lacrime e di sorrisi. Il tutto legato dal filo di una sceneggiatura appena abbozzata, pronta a lasciarsi stupire dagli imprevisti dell’avventura e dalle insospettabili sfaccettature dei personaggi.

A fare da sfondo ci sono le distorsioni applicative del Regolamento di Dublino, abilmente svelate dall’esperienza dell’uomo della strada (e del mare) divenuto per l’occasione raffinato giurista. A fare da sfondo c’è lo spettro del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per il quale nessuna Procura della Repubblica ha ritenuto fino a questo momento di procedere. A fare da sfondo, infine, ci sono i diritti umani, quelli di cui si è titolari in quanto persone e non in quanto cittadini e in riferimento ai quali si impone come inderogabilmente necessaria una coincidenza tra il diritto positivo e quello naturale: il sole e la luna, in fondo, sono gli stessi per tutta l’umanità, osserva “la sposa”, che invoca la stessa legge universale anche per le acque di un mare divenuto per molti la sola via di salvezza.

Il colloquio di Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry con Nanni Moretti e con il pubblico dell’Arena arricchisce la proiezione di dettagli preziosi: il “casting” e le difficoltà di individuare la sposa, le divergenze tra i tre registi durante il montaggio e la sofferta scelta del finale.

Il tutto mentre scorrono sullo schermo i nomi delle migliaia di “produttori dal basso”, che, attraverso la nuova frontiera (è proprio il caso di dirlo!) del crowdfunding, hanno consentito di raccogliere i fondi necessari alla realizzazione del progetto. Perché la rete, ci conforta Augugliaro, può essere qualcosa in più di uno sterile “mi piace” distrattamente abbandonato su Facebook. La rete in questo caso è stata in grado di traghettare un film e le sue storie fino al (e oltre il) Lido di Venezia, segnando un debutto cinematografico che “Bimbi belli” non poteva ignorare.

data di pubblicazione 7/7/2015