120 BATTITI AL MINUTO di Robin Campillo, 2017

Alla fine degli anni Ottanta, sulla scia dell’omologo americano, nasce a Parigi l’Act Up – Paris, associazione che si propose di sensibilizzare le masse al problema dell’Aids, quell’epidemia che oggi tutti conosciamo e che in quegli anni mieteva migliaia di vittime, in gran parte nella cerchia degli omosessuali e dei tossicodipendenti. Il folto gruppo di partecipanti, quasi tutti sieropositivi al virus HIV, mediante azioni molto provocatorie e mai violente intese così scuotere l’opinione pubblica, per spingere la classe politica di allora a prendere seriamente in considerazione il fenomeno e a promuovere una mirata azione preventiva nelle scuole e nelle università.

 

Gli attivisti che gremiscono la sala dove si svolgono le riunioni periodiche del movimento Act Up indossano una maglietta con la scritta Silenzio=Morte, a significare che in quegli anni terribili la classe politica preferiva ignorare il problema dell’Aids, evitando di impiegare i media al fine di presentare alla popolazione la natura dell’epidemia virale e i mezzi per prevenirla o meglio evitarla. Mentre migliaia di uomini ogni anno morivano devastati da atroci sofferenze, le case farmaceutiche prendevano intanto tempo per sperimentare farmaci retrovirali che avrebbero portato nelle loro casse immensi guadagni. L’azione di Act Up era mirata a svolgere una guerra non violenta, ma esclusivamente di sfida, mediante utilizzo di falso sangue da spargere ovunque facessero irruzione, proprio per scuotere quell’establishment politico-sanitario che con la propria indifferenza contribuiva paradossalmente al diffondersi del contagio letale. Nato in Marocco, ma cresciuto in Francia, Robin Campillo è da ritenersi oggi uno dei più noti registi emergenti francesi soprattutto per l’esperienza pluriennale acquisita come sceneggiatore accanto al pluripremiato regista Laurent Cantet (La classe – Entre les murs che gli valse la Palma d’Oro al 61esimo Festival di Cannes). Il film nasce dall’esigenza, da parte del regista, di raccontare la propria esperienza come militante all’interno del movimento che lo aveva portato a partecipare attivamente a diverse azioni provocatorie assieme ad altri componenti del gruppo, al fine di scuotere politica e coscienze. Il prodotto è ben costruito grazie ad un attento montaggio, curato dallo stesso regista, in cui talvolta si passa dal frastuono assordante delle discoteche all’intimità sessuale della camera da letto in cui i due protagonisti Sean (Nahuel Pérez Biscayart) e Nathan (Arnaud Valois) sembrano ritrovarsi, quasi per caso, senza soluzione di continuità. La pellicola, già premiata a Cannes 2017 con il Grand Prix Speciale della Giuria e Queer Palm rappresenterà la Francia ai prossimi Oscar, ha come merito sicuramente quello di far conoscere alle nuove generazioni quello che significò in quegli anni il diffondersi dell’Aids, dal momento che oggi se ne parla davvero poco e forse, per molti giovani, il problema è del tutto ignorato. La storia d’amore tra Sean e Nathan, che si inserisce silenziosamente tra le pieghe del racconto, ci trascina ma non ci commuove più di tanto: siamo ben lontani dalle reazioni al film Philadelphia quando anche il più incallito omofobo, senza darlo a vedere, fu coinvolto emotivamente e ne rimase sconvolto.

data di pubblicazione:04/10/2017


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1 commento

  1. Un film bellissimo, tosto, un pugno allo stomaco che non mi aspettavo. Credo che non dimenticherò facilmente gli sguardi, i sorrisi, la speranza di farcela, la voglia di divertirsi, l’euforia ma anche lo smarrimento declinato attraverso gli occhi dei protagonisti, tutti molto bravi. Bello anche il ritmo del film che passa senza soluzione di continuità dal frastuono al silenzio, dai balli in discoteca alla morte, dal desiderio di continuare a vivere di ragazzi poco più che ventenni alla umana paura di morire troppo giovani. Un grande film da vedere, forse il vincitore morale di Cannes 2017.

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